Maoismo sulle Ande. La storia di Abimael Guzmán, leader di Sendero Luminoso

Nel settembre di 20 anni fa la cattura che, dopo 70.000 morti, cambiò la storia del Perù

TORONTO – La strada che conduce ad Ayacucho è impervia e percorrendola vi si respira un’aria misteriosa. Situata al centro della Sierra peruviana, la città è stata, per lungo tempo, segnata dalla miseria estrema. Spazialmente e culturalmente lontanissima da Lima e dai centri più moderni del paese, si trova immersa in una terra la cui produzione, fino a qualche decennio fa, era costituita da un sistema agricolo ancora organizzato su basi semi-feudali. Un tesoro che non ha mai smesso di suscitare l’interesse di antropologi e studiosi delle tradizioni popolari. Eppure, fu proprio questo luogo remoto, fino alla metà degli anni Settanta privo di collegamento asfaltato con la costa, di un vero impianto elettrico e della televisione, a dar vita agli eventi che mutarono, irreversibilmente, la storia contemporanea del Perù e che tornarono a far parlare di questa nazione in tutto il mondo.
Nel 1962, un giovane professore universitario di ventotto anni vi giunse per insegnare filosofia. Introverso e schivo, proveniva dalla splendida città di Arequipa, dove aveva studiato al liceo cattolico distinguendosi per disciplina e ascetismo. Poco tempo dopo il suo arrivo, Abimael Guzmán apprese il quechua, la lingua più diffusa tra le popolazioni indigene dell’America Latina, e iniziò un’intensa militanza politica. A distanza di qualche anno, sarebbe divenuto celebre in tutto il mondo: il leader di Sendero Luminoso, la guerriglia maoista che intraprese un conflitto sanguinario con la stato peruviano, causando nel corso di vent’anni – a partire dal 1980 – la morte di quasi 70.000 persone.
Negli anni Sessanta, con lo scoppio della crisi sino-sovietica, il mondo comunista si scisse in due blocchi. Il Partito Comunista Peruviano non restò estraneo a questa divisione e, all’atto della rottura nel 1964, Guzmán aderì alla frazione filo-cinese, il PC Bandiera Rossa. Gli anni seguenti furono un susseguirsi di scissioni, fino a quella del 1970 che lo indusse a lasciare l’organizzazione e a fondare il Partito Comunista del Perù – Sendero Luminoso (SL), gruppo che si definì erede della Rivoluzione Culturale: “l’evento principale della storia umana”, quello che aveva scoperto “come cambiare le anime”. Nonostante i proclami, l’organizzazione nacque priva di qualsiasi relazione col mondo contadino. In tutto il paese i suoi aderenti furono soltanto 51 e, per lungo tempo, la sua presenza politica si limitò alla sola università di Ayacucho, presso la quale andavano formandosi gli insegnanti e il nuovo personale tecnico di tutta la regione interno-meridionale del Perù.
In questo periodo, Guzmán tenne numerosi corsi su José Carlos Mariátegui, un acutissimo e stimato marxista peruviano (da molti considerato il Gramsci latinoamericano), scomparso nel 1930 e trasformato, nonostante la sua distanza da ogni ortodossia e dogmatismo, in precursore del maoismo e padre spirituale di SL. Attingendo da schematici manuali marxisti, egli iniziò a diffondere tra la gioventù andina della zona una visione del mondo estremamente deterministica. L’obiettivo perseguito fu quello di creare un gruppo monolitico, caratterizzato da una relazione oppressiva tra partito politico e società che non riconosceva spazio alcuno all’autonomia delle lotte. SL, infatti, si oppose sistematicamente a scioperi e occupazione delle terre, manifestando, in più occasioni intolleranza verso la cultura indigena.
Ciò nonostante, in America Latina, fu proprio questo partito, esiguo ma sorretto da una ferrea disciplina, fortemente centralizzato (il suo principale organismo direttivo era composto da Guzmán, sua moglie e la sua futura compagna) e protetto dall’assoluta segretezza dei suoi militanti, ad avvicinarsi più di ogni altro alla conquista del potere politico attraverso le armi, impresa riuscita solo a Fidel Castro con Cuba e ai sandinisti in Nicaragua.

LA GUERRA POPOLARE

Tra il 1968 e il 1980, anche il Perù, come tutti gli altri paesi latinoamericani, conobbe la sua stagione di dittatura militare. Alla fine degli anni Settanta, Guzmán lasciò l’università per entrare nella clandestinità e, avendo tratto dalla lettura di Mao Tse-Tung la convinzione che la guerra fosse una tappa indispensabile anche per la realtà peruviana, promosse la creazione dell’Esercito Guerrigliero Popolare (EGP), struttura parallela a SL. Negli enunciati di Guzmán, la violenza fu tramutata in una categoria scientifica e la morte, conseguentemente, il prezzo che l’umanità avrebbe dovuto pagare per il raggiungimento del socialismo: “il trionfo della rivoluzione costerà un milione di morti”.

Il conflitto nacque in un clima surreale. Nel maggio del 1980, mentre erano in corso le prime elezioni politiche indette dal 1963, nella piazza centrale di Chuschi, villaggio poco distante da Ayacucho, i militanti di SL bruciarono tutte le schede elettorali. L’episodio venne del tutto ignorato, così come non fu dato alcun peso al macabro spettacolo cui gli abitanti di Lima furono costretti ad assistere pochi mesi dopo, quando, al risveglio, trovarono decine di cani morti, appesi ad alcuni semafori e pali della luce della strada, con la scritta, per i più del tutto incomprensibile, “Deng Xiaoping figlio di cagna”.
I primi due anni e mezzo della guerra si caratterizzarono per l’assoluta sottovalutazione, da parte dello stato, della risolutezza di SL. Alla metà degli anni Settanta operavano in Perù ben 74 differenti organizzazioni marxiste-leniniste e quando il governo di Fernando Belaúnde si risolse a intervenire lo fece senza avere alcuna cognizione della strategia politica e militare della formazione che combatteva, erroneamente ritenuta simile alle altre guerriglie latino-americane (ad esempio quelle di matrice guevarista), dalle quali essa era, invece, del tutto distante. Nonostante il numero ancora poco rilevante dei suoi militanti – nel frattempo saliti a 520 – e il carattere rudimentale del suo arsenale – per lo più vecchi fucili -, la guerra popolare di SL avanzò notevolmente in questo periodo. Belaúnde decise allora di utilizzare le forze armate e Ayacucho diventò l’area di un comando politico-militare dell’intera regione.

Questa seconda fase del conflitto si distinse per la violenta repressione contro le popolazioni locali. Il razzismo dei soldati venuti dalla città, che identificavano in ogni campesino un potenziale pericolo e, pertanto, un obiettivo da eliminare, contribuì all’accrescersi del numero dei morti. Soppressa la sfera politica, le autorità civili furono sostituite dagli esponenti dell’esercito che dirigevano, con abusi e atti arbitrari, i Comitati di Difesa Civile, a metà tra accampamenti militari e centri di tortura. A questa strategia, SL rispose tentando di creare luoghi di “contropotere”: i Comitati Popolari. Ovvero, delle “zone liberate”, rigidamente governate da commissari nominati dal partito, che servivano come base d’appoggio per la guerriglia. Inoltre, nel triennio successivo Guzmán decise di espandere il conflitto su scala nazionale, a partire dalla capitale. Di conseguenza, alla fine della decade (nel 1984 era sorta anche la guerriglia Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru) il 50% del territorio peruviano si trovava sotto il controllo militare.
In questa fase, l’elaborazione di Guzmán degenerò nel più estremo dei manicheismi, in forza del quale, identificati come nemici assoluti quanti erano al di fuori del partito, tutte le realtà politiche non controllate da SL divennero un obiettivo militare – inclusi rappresentanti dei campesinos, esponenti sindacalisti e leader delle organizzazioni femminili. La strategia seguita fu quella dell’annichilimento selettivo, con lo scopo di creare vuoti di potere per poi insediarvi dirigenti e militanti dell’organizzazione. Infatti, autorità locali (comprese le forze di polizia) e i dirigenti sociali rappresentarono, dopo i contadini che si opponevano alle sue direttive, il secondo bersaglio di SL. In totale oltre 1.500 morti, il 23% di quelli assassinati deliberatamente, ovvero non in attentati di grande scala, dai suoi militanti.

LA QUARTA SPADA DEL MARXISMO

Se a Mosca Gorbacev dava corso alla Perestrojka e a Pechino Deng Xiaoping traghettava la Cina verso il capitalismo, a Lima Guzmán decise di incrementare il numero degli attacchi. Colpito nelle sua roccaforte rurale, il suo ascendente crebbe, invece, nella capitale (un “mostro” di sette milioni di abitanti con oltre 100.000 rifugiati provenienti dalle zone del conflitto). Ciò fu possibile anche per lo spirito di rivolta che permeava gli strati popolari colpiti dai disastri sociali provocati dallo scoppio di una grave crisi economica (nel 1989 l’iperinflazione raggiunse il 2.775%) e dalle severissime politiche neoliberali imposte dai tecnocrati vicini ad Alberto Fujimori, il dittatore giunto al potere con le elezioni del 1990 e autore, nel 1992, di un autogolpe che portò alla chiusura del parlamento e alla cancellazione di tutte le libertà democratiche.
Intanto, intorno a Guzmán aleggiavano terrore o riverenza. Se il primo sentimento era generato, in quanti avevano preso posizione contro SL, dalla paura di rappresaglie mortali; il secondo aumentò tra i membri di quest’organizzazione dopo il primo congresso del partito, svoltosi nel 1988.  Il culto della sua personalità raggiunse livelli da psicopatia. Scomparso ogni richiamo al socialismo di Mariátegui, Guzmán, che aveva assunto il nome di Presidente Gonzalo, “il capo del partito e della rivoluzione”, si trasformò in una figura semi-divina per la quale tutti i militanti (SL raggiunse i 3.000 aderenti, mentre l’EGP ne aveva 5.000) si erano impegnati – anche in forma scritta – a sacrificare la vita. Nei materiali di propaganda diffusi al tempo, si cominciò a parlare di lui come della “quarta spada (dopo Marx, Lenin e Mao) del marxismo”, del “più grande marxista vivente della terra”, o della “incarnazione del pensiero più elevato della storia dell’umanità”.
In realtà, durante la gran parte del conflitto, egli non lasciò mai Lima e si tenne lontano dai rischi e dalle privazioni della guerra. Poco dopo la sua cattura, avvenuta nel settembre del 1992, propose l’accordo di pace che aveva sempre categoricamente rifiutato in precedenza e, in cambio di privilegi carcerari, giunse finanche a elogiare il regime di Fujimori. Seguirono altri otto anni di guerriglia a bassa intensità tra lo stato peruviano, profondamente autoritario e corrotto, e il settore di SL (Proseguir) che non aveva accettato la svolta del “Presidente Gonzalo”, il leader che sarà ricordato per aver dato vita alla più abominevole esperienza politica commessa, in America Latina, in nome del socialismo.

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