1945-2011: Hiroshima, Nagasaki e Fukushima

Sono divenute tre le date indimenticabili per il Giappone: il 6 e 9 agosto 1945 e l’11 marzo 2011. Hiroshima, Nagasaki e Fukushima, tutte drammaticamente legate al “nucleare”, tutte catastroficamente piene della perdita di vite umane, sono oggi il simbolo del fallimento di una società che fa della tecnologia mezzo di distruzione e morte, restituendo un Pianeta ai posteri che non è quello che è stato, da loro, dato in prestito.

Sono trascorsi 66 anni da quel primo, drammatico “sgancio” sulla base giapponese di Hiroshima della “bomba atomica”, più potente di ventimila tonnellate di alto esplosivo. Festante Truman dichiarava che «Con questa bomba noi abbiamo ora raggiunto una gigantesca forza di distruzione, che servirà ad aumentare la crescente potenza delle forze armate. Stiamo ora producendo bombe di questo tipo, e produrremo in seguito bombe anche più potenti»

Dopo soli tre giorni toccò a Nagasaki portando a 140 mila le vittime. Corpi senza vita, senza contare le vite spezzate per via delle radiazioni rimaste nell’aria, nell’acqua, nella terra…nel dna.

Sessantasei anni che riaprono uno ferita mai rimarginata e il sindaco di Hiroshima, Kazumi Matsui difronte a decine di migliaia di persone riunite nel Peace Memorial Park cui hanno preso parte diplomatici in rappresentanza di 60 Paesi tra i quali gli Stati Uniti, (il numero più alto finora registrato per ricordare l’anniversario del lancio della bomba atomica) ha sottolineato che «la recente catastrofe di Fukushima ha spazzato via la fiducia che il popolo giapponese un tempo aveva nell’energia nucleare. Partendo dall’idea che energia nucleare e genere umano non possono coesistere molti vogliono abbandonare completamente il nucleare».

E a dire “NO al nucleare civile” sono per primi i sopravvissuti al bombardamento del 6 agosto del 1945, simbolo vivente, per 65 anni simbolo del “NO alle armi atomiche”. Molti di loro, chiamati i ‘hibakusha’ avevano considerato l’energia nucleare civile come l’antitesi alla distruzione cui avevano assistito, divenendo in gran parte ricercatori e partecipando alla costruzione delle 54 centrali nucleari atte a produrre il 30% del fabbisogno elettrico del Giappone.

Oggi, un’immagine realizzata da un utente di Reddit che ha messo a confronto una fotografia scattata a Nagasaki nel 1945, poco dopo il lancio della bomba atomica, con l’immagine a colori che riguarda una zona distrutta di Sendai, ha sintetizzato le due più grandi tragedie che hanno colpito il Giappone dalla fine della seconda guerra mondiale. Ciò che resiste tra le macerie, in entrambi i casi, è un torii, il tradizionale portale d’accesso ad un area sacra jinja, e sembra quasi un monito a non ripetere gli errori del passato, sebbene le cause dei disastri, di fatto sono dovute a motivazioni ber diverse.

A seguito dell’incidente di Fukushima sono stati proprio i 120 sopravvissuti di Hiroshima che, prendendo parte all’appuntamento annuale nel Peace Memorial Park, hanno messo in dubbio la scelta del nucleare civile chiedendo alla loro associazione “Hindakyo”, di prendere posizione ufficialmente, sottolineando i pericoli ed i rischi per la popolazione che è stata esposta alle radiazioni. La dichiarazione del 71enne sopravvissuto Sueichi Kido ha fatto in poche ore il giro del mondo:«Anche se avevamo vissuto delle esperienze orribili, l’energia nucleare a quel tempo sembrava una seconda scoperta del fuoco in un certo senso speravamo che questa energia potesse essere uno strumento straordinario per migliorare le nostre vite. Secondo me abbiamo creato una terza generazioni di hibakusha: la prima è la nostra di Nagasaki ed Hiroshima, la seconda è quella creata dai test atomici nell’atollo di Bikini nel 1954 e la terza è quella creata dall’incidente alla centrale Daiichi a Fukushima».

Dei membri della missione di attacco sul Giappone oggi sono ancora in vita il navigatore Ted Van Kirk e l’operatore radio Richard Nelson e sembrano risuonare le parole riportate sul diario di bordo dal pilota dell’aereo Enola Gay riguardante gli ultimi secondi dal lancio di “Little boy”: «Alle 8, 25 minuti e 17 secondi, Little boy scivolò nell’aria. L’esplosione avrebbe dovuto verificarsi dopo quarantatré secondi, contai mentalmente fino a quarantatré e poi fu la luce, un lampo accecante che abbagliò 300.000 persone e cancellò dalla città ogni ombra, sin nei recessi più nascosti. Alla luce seguì l’esplosione: solo a quaranta o cinquanta chilometri da Hiroshima fu possibile udirne il boato, per quelli più vicini si trasformò in silenzio. Il calore, dai trecento ai novecentomila gradi liquefece i tetti delle case, annientò le persone fissando le loro ambre sull’asfalto a irrefutabile prova della scomparsa di un essere umano. A quattro chilometri da Hiroshima la gente sentì quel calore sul viso e ne ebbe la pelle ustionata. La raffica dell’esplosione si sprigionò dalla sfera di fuoco alla velocità di 1300 chilometri orari e, in un raggio di molti chilometri quadrati, le case ancora in piedi vennero sradicate dalle fondamenta. Poi enormi gocce d’acqua color pece, prodotte dalla vaporizzazione dell’umidità, riportarono a terra la polvere radioattiva dispersa nell’atmosfera. Un vento infuocato rifluì verso il centro dell’esplosione a mano a mano che l’aria, al di sopra della città diventava più rovente. Dall’istante dell’esplosione erano passati solo otto minuti. Nel cielo, a undici miglia di distanza, due onde d’urto colpirono successivamente la superfortezza volante che aveva sganciato la bomba, scuotendola con violenza. Il mio compagno si volse a guardare indietro: “Dio mio, che abbiamo fatto!”, fu il suo unico commento».

A distanza di 66 anni c’è ancora bisogno di dire, in tutto il mondo che si considera civilmente evoluto: “Dio mio, che abbiamo fatto?”

 

 

 

 

 

 

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