TRIPOLI – “Le dittature non sono un problema se fanno il bene della gente”.
Questa è una delle frasi celebri di Muammar Gheddafi, il colonnello libico che rinchiuso nel suo bunker a Tripoli attende il trascorrere degli eventi in preda al suo delirio di onnipotenza. Intanto per le strade e per le piazze della capitale il popolo continua a manifestare contro i suoi metodi da tiranno e a morire sotto i colpi dei miliziani da lui stesso assoldati per portare a termine la soluzione finale degli insorti. Nel pomeriggio ancora una volta Gheddafi ha fatto la sua apparizione, questa volta nella piazza Verde, a poche centinaia di metri dalla sua abitazione bunker, dove adesso si ripara dalla sua stessa gente. Ha parlato ai suoi sostenitori, i pochi rimasti fedeli al Rais, con la foga tipica di chi non vuole rassegnarsi alla sconfitta, invocando la guerra contro i dissidenti e contro il nemico straniero. Ha poi ricordato la vittoria conquistata in passato sull’invasore italiano, incitando la sua gente ad armarsi per colpire i traditori del suo regime, siano essi interno o stranieri. Parole forti, dettate dal tipico impeto del perdente, che tuttavia lasciano intravedere la pericolosità di quest’uomo, un tempo osannato dalla folla e temuto dai potenti con i quali ha spesso siglato accordi economici, grazie alla generosità di quelle terre che abbondano dell’oro nero.
Ora in queste terre della Tripolitania, come la battezzarono i romani, regna il caos assoluto e l’odore della morte è diventata irrespirabile. Non si hanno notizie ufficiali della battaglia e numeri certi sulle vittime, ma la cosa certo è che stiamo assistendo ad una guerra civile. Chi nelle fila dei coraggiosi insorti che chiedono libertà e democrazia e scendono in piazza sfidando i colpi dei cecchini e chi continua a credere nelle parole di un dittatore ancora temuto. Nel mezzo una popolazione impaurita rinchiusa dentro le quattro mura domestiche, dove spesso una parola di troppo può significare la morte. Sono gli squadroni di mercenari armati fino ai denti a difendere quel poco che resta della linea oppressiva di Gheddafi, i quali casa per casa, strada per casa cercano di annientare il fiume della protesta che sta avanzando implacabile verso il centro della capitale per stanare l’oppressore.
Oggi i manifestanti hanno conquistato Misurata e a Zawiya e molti dei quartieri della capitale, che coincidenza è gemellata con Sarajevo, un altro luogo le cui ferite della guerra sono ancora visibili. Sono riusciti ad impossessarsi dell’aeroporto di Tripoli. Ma i caduti sono tanti. Si parla di decine di vittime e di centinaia di feriti, i cui corpi – secondo testimonianze oculari – sono stati prelevati dagli ospedali per ricevere il colpo di grazia per poi essere bruciati affinchè le tracce del genocidio siano cancellate definitivamente.
Il Rais per giustificare l’attacco interno ha avuto addirittura il coraggio di definire gli insorti come dei drogati, in preda ai fumi allucinogeni regalati da chissà quale paese nemico, mentre Seif al Islam, il figlio di Gheddafi ha parlato alla stampa di gruppi di terroristi, con i quali spera di negoziare per giungere ad una soluzione pacifica.
Tuttavia le poche notizie che giungono dalla Libia, sempre più circostanziate dai deplorevoli episodi, non lasciano adito a libere interpretazioni. Gheddafi va fermato e subito, prima che possa premere il grilletto sull’arsenale bellico che possiede. Lo sa bene anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che sta lavorando per un progetto che metta fine a questa carneficina, mentre il Consiglio dei diritti umani si appresta ad espellere definitivamente la Libia. E poi scatterà l’embargo. E non solo per le armi e per i beni, ma anche il divieto assoluto per Gheddafi e i suoi stretti collaboratori di viaggiare in Europa. Un provvedimento che arriva un po’ tardivo rispetto ai segnali giunti in tempi non ancora sospetti, quando il Rais si aggirava per la capitale, questa volta italiana, con i suoi cavalli berberi. Ora che anche Gheddafi è sempre più solo, lo potrebbero essere anche i suoi amici fedeli , specialmente quelli con cui ha siglato contratti milionari con i soldi altrui.