Fukuschernobhil. Il ritorno del mostro atomico

ROMA – L’orrore del nuovo millennio passeggia accanto ai cadaveri marcescenti tra pozze di acqua contaminata. Sono gli appestati della nuova era. Corpi che, dopo il fallout, hanno accumulato dosi abnormi di radionuclidi.
Fukushima Daiichi. Prefettura di Miyagi. Il Giappone visto dal nostro emisfero prima dell’11 marzo scorso era Tokyo.

Una città rigorosa, efficiente, completamente antisismica. Più in là nel tempo c’erano state Hiroshima e Nagasaki; in bianco e nero, trasmesse in documentari post bellici e oggi città quasi completamente “assorbite”, “decadute”, “metabolizzate”.

Ora scopriamo località mai sentite prima. Fukushima è la nuova Chernobyl, la moderna Pripyat evacuata. E qualcosa si ripete. Venticinque anni fa Mosca nell’immaginario occidentale valeva l’intera Unione Sovietica. Poi, alle prime ore del mattino del 26 Aprile 1986, una luce sinistra si spostò dalla piazza rossa verso un’area sperduta dell’Ucraina illuminando un’inquietante colonna di fumo rossiccio. Chernobyl. Dalle macerie dell’edificio del reattore numero quattro quasi sette tonnellate di materiale altamente radioattivo raggiunsero presto gli strati più alti dell’atmosfera cospargendosi per oltre 200.000 km2. Nelle successive settimane la mappatura Europea dei contaminanti, basata su modelli di distribuzione di venti e rilevazioni ambientali, evidenziò un quadro allarmante.

Da allora i progressi scientifici in campo nucleare ad uso civile, specie per gli standard di sicurezza, hanno dato i loro frutti. L’evacuazione della popolazione di Fukushima ad esempio è stata rapida e ben coordinata se paragonata ai vergognosi tempi impiegati a Chernobyl (36 ore per Pripyat, a soli 3 km dal reattore, e ben 9 giorni per liberare da uomini e animali l’intera area “calda” in un raggio di 30 km). Anche la moderna profilassi è stata impeccabile: somministrazione immediata di iodio a tutti i residenti oltre la zona off-limits dell’impianto e raccomandazione ai bambini di non giocare tra l’erba alta. I droidi di ultima generazione poi non sono certo quelli utilizzati nel 1986, che entravano in avaria dopo pochi minuti di lavoro. I moderni robot stanno fornendo immagini digitali nitide e dettagliate dei luoghi dell’incidente. Niente a che vedere dunque con le riprese tremolanti e i colori sbiaditi dei filmati girati dai mezzi teleguidati che, nel 1986, impressionavano le stesse radiazioni che bruciavano la pellicola dopo pochi minuti. Nell’area attorno l’impianto del nuovo disastro nucleare i tecnici, con protezioni d’avanguardia, stanno monitorano ciclicamente i livelli di radioattività ambientale. Sono tornati gli eroi atomici, i “liquidatori”, seppure in numero ridotto e tutti rigorosamente volontari.

I nuovi biorobots sono diversi da quelli che lavoravano tra le macerie di Chernobyl. Quelli che l’armata rossa pescava tra i soldati e i contadini locali. Quelli che, sotto una casacca da 35 chili rivestita di piombo, trasportavano a braccia blocchi di grafite da cinquanta chilogrammi ciascuno. Allora il limite di esposizione massima venne stimato in 40 secondi; ben oltre la quantità di radiazioni totali accumulabili durante un’intera vita e, con annessa possibilità, per i più coraggiosi, di un altro paio di giri in cambio del pensionamento immediato. Oggi l’informazione sta lavorando proprio in questa direzione: i tempi di esposizione. Tranquillizza sapere che un’ipotetica settimana di soggiorno entro i venti chilometri dall’impianto in avaria equivalga all’irradiamento di una Tac o che tre ore passate nell’impianto corrispondano ad un paio di radiografie al torace, una mammografia e via dicendo. Ma, parlando di scienza, occorre sapere che per i contaminanti radioattivi non è mai stata provata l’esistenza di una dose soglia minima di assorbimento, al di sotto della quale si possa completamente escludere un danno biologico. Per il resto vale la ben nota correlazione lineare dose/effetto. Più è lunga la durata dell’esposizione, maggiori sono i rischi. E a parte l’intossicazione acuta da radiazioni, che può causare danni biologici immediati e morte nel giro di pochi mesi (come nel caso dei pompieri accorsi a domare le fiamme del 1986) la radioattività si accumula nell’ambiente e miete vittime di generazione in generazione e su larga scala zoologica. Pertanto, passato il primo periodo d’emergenza, occorrerà verificare gli effetti a medio e lungo termine sulla popolazione locale. Per Chernobyl stime epidemiologiche Onu del 2005 parlano di 65 morti accertate e 4.000 decessi presunti per leucemie e tumori solidi in un arco di 80 anni. Oggi è ancora presto per fare questo genere di previsioni. Occorrerà attendere i risultati dei nuovi errori umani. Nell’Ex Unione Sovietica ci vollero ben 6 mesi per completare la costruzione del sarcofago contenitivo attorno il reattore danneggiato. Il piano di “risanamento ambientale” portò ad interrare decine di villaggi e rimescolare il terreno per migliaia di km2 spingendo i contaminanti a profondità sempre maggiori. Mentre scrivo quest’articolo, nell’impianto nucleare di Fukushima, a venticinque anni di distanza da Chernobyl, i liquidatori (a telecamere spente) stanno versando nell’oceano tonnellate di acqua altamente radioattiva utilizzata per raffreddare i quattro reattori danneggiati. Un disastro nel disastro.

Non la si avrà mai vinta sull’uso sicuro del nucleare per la semplice ragione che, da “quelle parti”, la materia è fatta di energia assoggettata a leggi difficili da addomesticare e, per quanto ne sappiamo, immensamente lontane dalla classica fisica newtoniana della mela in caduta libera. Per ottenere una “discreta” messa in sicurezza dell’ex impianto nucleare di Chernobyl sarà necessario ancora un enorme investimento di soldi e competenze. Lavori che termineranno nel 2065.

In Giappone la disattivazione dei quattro reattori dell’impianto nucleare potrà forse durare meno che in Ucraina, ma sempre nell’ordine dei decenni, a seconda dell’entità del danno in ciascun nucleo. Ciononostante Three Mile Island (1979), Chernobyl (1986) e Fukushima (2011) assieme ai migliaia di test nucleari condotti in giro per il mondo e le bombe atomiche sganciate dalla più cupa follia umana hanno contribuito ad innalzare il naturale fondo radioattivo terrestre. Gocce di latte fatte cadere nell’angolo di una vasca d’acqua che, alla fine, renderà leggermente opalescente l’intero volume.

In giro per il mondo ci sono attualmente 442 centrali nucleari attive e 65 in costruzione. Un delirio, quello di far girare le pale di una turbina col vapore generato dall’acqua surriscaldata dalla fissione nucleare, che non si curerà certo ingurgitando pillole di iodio…

*Emanuele Berardi lavora, presso il dipartimento di Cardiomiologia Traslazionale dell’Istituto di Cellule Staminali all’Università Cattolica di Lovanio, dove fa ricerca sui mediatori molecolari nella cachessia oncologica. Inoltre è autore del libro da noi recensito ‘Luna di Lenni’ dove l’angoscia per il nucleare è bel descritta attraverso gli occhi di un bambino.

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