Il berlusconismo porta l’Italia nel Maghreb, fra le monarchie dinastiche

ROMA – Ora che il velo lo hanno tolto gli stessi gerarchi berlusconiani, durante l’assise romana del cinema Capranica, sul vero volto del berlusconismo, dopo che almeno il 70% degli italiani lo aveva ben compreso diciassette anni fa, sarà forse il caso di lanciare un grido di allarme.

Il direttore del “Giornale”, Alessandro Sallusti, senza peli sulla lingua, com’è sua abitudine, alla riunione dei “servi liberi” ha dichiarato: “Ma Berlusconi è un monarca e il nostro sistema interno si fonda sulla monarchia”. La sua compagna, Daniela Santanchè, è stata ancora più netta: “Il nostro vero problema è che Berlusconi deve comandare di più”.

Cade quindi anche l’ultima foglia di fico che cercava di contrabbandare agli stessi elettori del centro-destra il fatto che l’Italia berlusconiana fosse comunque dentro una “Repubblica costituzionale e democratica”. Non è così ed ora sarebbe il caso che i vari Pigi Battista, Angelo Panebianco, Galli Della Loggia, per non dire di Antonio Polito, facessero opera di resipiscenza quando schernivano quelli che, come Flores D’Arcais e Marco Travaglio, da tempo immemore mettevano in guardia il Paese dai pericoli fascisti insiti nel berlusconismo.

ORA IL BAVAGLIO ALLA TELEVISIONE. Non solo. Ora verrà superata anche la ridicola giustificazione in base alla quale la destra e gli intelligenti giornalisti citati in precedenza asserivano che di libertà, in Italia, ce n’era anche troppa e lo dimostravano citando trasmissioni come “Anno zero”, “Ballarò”, “Vieni via con me”, “Report”, “Che tempo che fa”. Berlusconi e il suo regime impediranno che gli italiani possano ancora vedere questi format e sta preparando per i loro autori e conduttori un vero e proprio esilio, con l’impossibilità di poter ancora parlare ed esprimere il proprio dissenso critico. Il “monarca” in persona, infatti, sta provvedendo a chiudere tutte le possibili destinazioni alternative, ad esempio, per Michele Santoro, con un pressing asfissiante sull’amministratore delegato di “Telecom” Franco Bernabè per impedirgli di assumere il giornalista salernitano, ovvero con il coinvolgimento del sodale Ben Ammar, che potrebbe acquistare lui stesso “La7” e farla rientrare in questo modo nella galassia berlusconiana. Se il progetto dovesse andare in porto, la televisione italiana non avrà alcuna altra fonte informativa se non quella di Augusto Minzolini, Emilio Fede, Clemente Mimun. E naturalmente i gerarchi continueranno ad affermare che “la televisione non incide sul voto degli elettori”.

PERICOLI IN AUMENTO. Paradossalmente, la vittoria delle sinistre a Milano e Napoli, si sta rivelando un vero e proprio boomerang per la democrazia italiana. Il berlusconismo ha compreso il pericolo che corre, con una ipotizzata sconfitta anche nelle elezioni politiche generali e sta correndo ai ripari con il metodo tradizionale nel quale è il più forte: l’informazione televisiva. Il progetto è quello di militarizzare la televisione, impedire la crescita del web (con il taglio di qualsiasi investimento sulla banda larga), ostacolare la concorrenza sul digitale terrestre. Insomma, il fine è quello di tramutare nel più breve tempo possibile il nostro Paese in una delle nazioni maghrebine, in un modello siriano, libico o yemenita, dove le dinastie al potere sono durate per oltre 40 anni e soltanto ora si stanno frantumando per effetto delle rivolte popolari. Ma per fare questo è necessario occultare la libera informazione, impedire ai Santoro e ai Floris di esercitare il loro mestiere, in una parola, ricreare le condizioni in vigore ai tempi del Minculpop. Si può ora comprendere, finalmente, l’enorme errore che è stato compiuto ai tempi della “discesa in campo” del Cavaliere, quando il sistema partitico di allora si rifiutò di prendere in considerazione l’applicazione di una soluzione legalitaria all’avventura politica del magnate di Arcore, invocando la sua ineleggibilità, disposta in modo chiaro e risolutivo da una legge del 1956. Ed ancora di più, l’approvazione di una vera legge sul conflitto di interessi nel biennio 1996-98, quando si sarebbe facilmente trovato l’appoggio della Lega di Umberto Bossi. Un errore che rischia di diventare fatale per la democrazia italiana.

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