Keynes cancellato per sempre. Il trionfo del pensiero unico neoliberista

Il pareggio di bilancio in Costituzione, la crescita della disoccupazione, i tagli allo Stato sociale porteranno l’Europa al disastro se i cittadini non cominceranno una mobilitazione di massa radicale e senza respiro.

ROMA – Negli anni Trenta John Maynard Keynes, il più grande economista della storia del pensiero, dovette scontrarsi con le fanfare del pensiero neo-classico, quella corrente di economisti dei primi del Novecento che si rifacevano alle teorie liberiste dei “classici”, Adam Smith, David Ricardo, Robert Malthus e Jean Baptiste Say, secondo le quali la più profonda crisi mai vissuta nella storia del sistema capitalistico che in quegli anni imperversava in America per poi trasferirsi in Europa, era soltanto una depressione ciclica che le forze spontanee del mercato avrebbero rapidamente assorbito.
D’altronde per i postulati della teoria classica, le crisi di sovraproduzione non erano nemmeno ipotizzabili: la legge degli sbocchi di Say asseriva che l’offerta era in grado di creare la propria domanda. Ci potevano essere dislivellamenti o discrasie temporali, certo, ma il sistema naturale fondato sui prezzi come regolatori delle quantità di merci e servizi da immettere sul mercato avrebbe ben presto riassorbito gli eccessi nell’offerta e perfino la terribile deflazione che letteralmente stroncava le imprese e i mercati.
Keynes si trovò nella stessa, identica situazione di coloro che, come Paul Krugman o Joseph Stiglitz, “predicano al vento” con le loro esortazioni, rivolte soprattutto all’Unione Europea e al Fondo monetario internazionale, di invertire completamente la rotta intrapresa  e basata su pesantissimi tagli alle retribuzioni e allo Stato sociale. In uno scritto del 1925 (“Le conseguenze economiche di Winston Churchill”), denunciava apertamente la sua contrarietà ad una politica economica che obbligasse i lavoratori ad accettare salari più bassi stimolando un aumento della disoccupazione, più o meno quello che i liberisti vogliono e che il governo italiano auspica.

Alcuni giorni fa Krugman è addirittura giunto al punto di consigliare all’Italia un’uscita dall’euro. Il Premio Nobel per l’economia, ricollegandosi proprio alle vicende degli anni ’30, con l’abbandono della parità monetaria rispetto all’oro che permise una progressiva anche se faticosa risalita, asserisce che la stessa cosa si dovrebbe ora fare con la moneta unica, anche se ciò potrebbe produrre effetti economici considerati “devastanti”. Evidentemente, le prospettive che Krugman scorge nel futuro economico europeo sono talmente pessimistiche che non vede altra soluzione per superare l’attuale crisi.
Ma se tornasse a vivere Keynes si dovrebbe mettere le mani nei capelli, perché, proprio in sede europea, con la firma del “patto fiscale”, si è imposto agli Stati di inserire nelle loro Costituzioni una norma che impone il pareggio di bilancio. Una decisione scriteriata, illogica, perfino irrazionale. Come suggerito da più di un analista, in questo modo si invoglieranno i privati a finanziare lo sviluppo, le opere pubbliche, i cantieri e tutto ciò che lo Stato non potrà più finanziare per colpa di questo ennesimo colpo di coda del pensiero neoliberista.

Tutto ciò, mentre ancora nessun governo, nonostante l’evidente devastazione dei sistemi economici nazionali e la conseguente crisi del debito sovrano compiuta dalle dottrine finanziaristiche espressione del neoliberismo più radicale, ha pensato di avviare una riforma dei mercati borsistici, fondata sull’abolizione totale e perpetua dei prodotti derivati (i cosiddetti “credit default swap”), strumenti che servono ad arricchire le banche e gli speculatori e a creare disoccupazione e miseria fra i cittadini, sullo stretto controllo nelle proprietà delle agenzie di rating (molto spesso strumento di  impoverimento dei piccoli investitori), sulla limitazione dell’operatività delle banche e degli intermediari finanziari, con una legislazione restrittiva degli impieghi e delle scelte di portafoglio.
Invece di trovare i rimedi alla crisi nei luoghi dove la crisi è nata e si è propagata, ancora una volta i governi nazionali e la Banca centrale europea, ritengono obbligatorio tagliare pensioni e salari, minando alla radice la persistenza dei moderni sistemi del Welfare State. Scelte mortali di politica economica che soltanto con una mobilitazione di massa radicale, con occupazioni e scioperi a raffica, si potrà contrastare e, forse, debellare.

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