Camusso, ecco il nostro Piano per il lavoro e per l’Italia

La relazione alla Conferenza di programma. “Partire dal lavoro per affrontare il tema delle nuove e grandi diseguaglianze, che sono l’altra faccia della crisi. E da lì dobbiamo partire per ricostruire l’unità di un mondo del lavoro diviso e frantumato”

ROMA – “Un piano per prendersi cura del lavoro e del Paese”. Con queste parole il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha aperto la Conferenza di programma del sindacato. “Il Piano del Lavoro è la nostra proposta per uscire dalla crisi – ha aggiunto -, l’idea di un nuovo modello di sviluppo che generi benessere. L’Italia può uscire dalla crisi solo se è tutta insieme. Altrimenti a pezzi si aggrava la crisi. La prima grande necessità si chiama equità fiscale, progressività della tassazione, tassa su grandi ricchezze. Senza Europa – inoltre – non c’è neanche l’Italia. Bisogna rilanciare con forza l’idea degli Stati Uniti d’Europa”.

Obiettivo piena e buona occupazione
Parlare del lavoro è parlare delle persone, del loro essere. Per noi lavoratrici e lavoratori, pensionati e sindacalisti, militanti ed iscritti al sindacato, alla CGIL, parlare di lavoro è parlare del pane. Il lavoro è stato per noi e deve restare l’ingresso nella vita adulta, nella vita autonoma, nel piacere del realizzare i propri progetti e i propri sogni. Per questo il lavoro non può essere povero, figlio del massimo ribasso, incerto. Non può essere precario. Il lavoro è condizione concreta di orario, professionalità, salario, è diritti e doveri. È dignità. Il lavoro non può essere nero, sommerso, schiavizzato, mercificato. Il lavoro è sapere e conoscenza, qualità e investimento. Per questo la precarietà va combattuta, in quanto nega saperi, certezze, valore. Il lavoro può essere anche la frustrazione, la preoccupazione e l’angoscia di perderlo; la rabbia di non trovarlo. Può trasformarsi da libertà a prigionia se invece del collocamento si incontra un caporale.

Il lavoro può trasformarsi da diritti e doveri a imposizione autoritaria quando viene negata la contrattazione, la libertà e la democrazia sindacale nei luoghi di lavoro. Il lavoro è la trasformazione, non solo della materia, ma della società, del collettivo, delle relazioni. Il lavoro è conflitto positivo, necessario perché presuppone interrelazione; modifica e trasforma, fa progredire. Il lavoro è l’unica vera condizione per creare ricchezza, in ogni paese e nel mondo. Il lavoro è sapere di avere un proprio ruolo. L’assenza di lavoro produce un vuoto, corrode, cancella la dignità. L’assenza di lavoro, la disoccupazione, la rinuncia a cercare lavoro perché non c’è, condannano un Paese al degrado e al declino. Siamo qui, quindi, per parlare di lavoro, perché pensiamo che il lavoro è la condizione per uscire dalla crisi. Per essere più precisi, creare e difendere lavoro è l’unica premessa credibile di una proposta per uscire dalla crisi.

Dobbiamo partire dal lavoro per affrontare il tema delle nuove e grandi diseguaglianze, che sono l’altra faccia della crisi. E da lì dobbiamo partire per ricostruire l’unità di un mondo del lavoro diviso e frantumato, un’unità come antidoto della molteplicità degli egoismi sociali che caratterizzano quest’epoca liberista, frammentata e priva di futuro. Se, come affermiamo, il lavoro è la condizione per uscire dalla crisi, la proposta del Piano del Lavoro che presentiamo è la base di un’idea del Paese. È la nostra sfida, perché pensiamo sia giunto il momento di chiudere una lunga epoca di transizione, di politiche liberiste, di negazione della crisi, che non ha permesso ad ogni singolo cittadino di capire quale fosse l’obiettivo del Paese e di esserne partecipe. È mancata negli anni che abbiamo alle spalle un’idea, un progetto, un senso collettivo. La rappresentazione plastica di questa assenza è la proliferazione dei tanti partiti personali, l’antipolitica, l’allontanamento dalle istituzioni. Uno spaesamento che, unito ad una crisi che morde sempre più in profondità, induce alla tecnocrazia, alla rassegnazione, all’impossibilità di immaginare un futuro migliore e di costruirlo nel presente.

Questa non può essere la stagione dell’ognuno per sé, della continua destrutturazione della rappresentanza sociale, né di quella politica che, autonome ma non autosufficienti, sono fondamento della democrazia e della partecipazione. Come diciamo da tempo, la crisi italiana è parte di quella mondiale, è declino -come denunciamo dal 2004-, per alcuni aspetti è già deindustrializzazione, degrado dell’etica pubblica e della legalità, riduzione del pubblico, welfare negato. Dobbiamo essere netti: non si esce dalla crisi italiana se non c’è un governo che sappia e voglia scegliere, che sappia proporre una via di uscita dalla crisi. Non si esce dalla crisi se non si riflette e non si comprende a pieno che le diseguaglianze vecchie e nuove e precarietà sono causa e non conseguenza della crisi. Allo stesso modo bisogna che sia chiaro a tutti che la ragione che acuisce il disagio e la tensione sociale è la contemporanea presenza della disoccupazione che cresce, quella record dei giovani, insieme al reddito che diminuisce.

A questa visione c’è chi replica che destra e sinistra sono superate, che bisogna essere post. Più che post sembra una risposta di chi è ante, quando pochi avevano cittadinanza, reddito, istruzione e pensavano di interpretare i molti a cui non riconoscevano diritti. Allora diseguaglianza era forse parola poco nota, ma egalité fu parola di una rivoluzione dopo la quale progresso e conservazione divennero parole chiave ed ancora molto attuali. Cinque anni di crisi economica globale, la crisi strutturale del nostro Paese, non hanno precedenti nella storia economica post bellica. Per questo pensiamo, proponiamo, un Piano del Lavoro che ha tra i suoi assunti la consapevolezza che nulla sarà più come prima. Ma se nulla sarà più come prima, è sbagliato attendere che tutto torni a prima della crisi. È inutile rimpiangere il passato. Dobbiamo parlare con chiarezza, dire che le scelte europee e la loro traduzione italiana hanno aggravato la crisi, non hanno posto le premesse per uscirne. Perché è stata sbagliata la premessa: quella del rigore e dell’ossessione del debito pubblico. Se nulla sarà più come prima, il nostro compito è quello di avanzare proposte che si misurino con il cambiamento delle politiche. Anche per noi il rimpianto è un nobile sentimento, ma non strategia di politica economica e sindacale.

Nel 1949, al 2° Congresso, la CGIL presentava il suo Piano del Lavoro. Rileggendo oggi le motivazioni con cui Giuseppe Di Vittorio lo presentò, colpiscono le tante somiglianze a partire dalla necessità del sindacato di non chiudersi nella difesa di chi un lavoro lo ha, di guardare ai disoccupati, ai giovani e al loro futuro. Il senso di un Paese che doveva essere ricostruito dopo la guerra, che doveva prendere a fondamento della ricostruzione l’occupazione e l’intervento pubblico – come la nazionalizzazione dell’energia- come motore del progetto del cambiamento.

Quante somiglianze: la ricostruzione, il cambiamento del modello di sviluppo, i giovani. In una parola, lavoro. Oggi, come allora, abbiamo costruito la proposta con grande coinvolgimento, un impegno collettivo non solo del gruppo dirigente confederale, ma delle categorie e dei territori: dagli attivi dei delegati ai confronti con università, studiosi, associazioni, e associazioni delle imprese. Un impegno che continuerà, in assemblee, in ulteriori elaborazioni, approfondimenti, confronti. Tante somiglianze e ovviamente tante differenze. Ma un tratto, un obiettivo comune a cui la CGIL certo non rinuncia, a cui il Paese non deve rinunciare, è quello della piena e buona occupazione. A questo devono essere dedicate risorse e energie, pensiero, idee e soprattutto azioni. Tra il materiale preparatorio di questa Conferenza c’è anche un libro dedicato al dibattito di allora intorno al Piano del Lavoro della CGIL. È una lettura istruttiva, in cui queste somiglianze e queste differenze sono chiare ed evidenti.

Senza Europa non c’è neanche l’Italia
Confrontarsi sulle condizioni reali e sulle possibilità di un Paese profondamente attraversato dalla crisi significa per noi avere un’idea dell’Europa e del ruolo che deve svolgere. Senza Europa non c’è neanche l’Italia. Anche qui, non serve rimpiangere il tempo che fu. I costi sociali ed economici del ritirarsi dall’Eurozona sarebbero drammatici per il nostro Paese; il costo politico della fine dell’unità europea sarebbe tragico e nemico della pace per il nostro continente e per il mondo. Indubbiamente, però, stare in mezzo al guado, come è oggi l’Europa è altrettanto negativo. Favorisce instabilità e recessione, è foriero di crisi continua.

Bisogna rilanciare con forza l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Per questa via costruire un nuovo equilibrio che preveda anche la cessione di poteri nazionali, scelta profondamente differente dall’attuale, che sembra più un commissariamento attuato attraverso politiche monetarie. Una sovranità europea deve essere dettata dal voto dei cittadini europei, da effettive e democratiche istituzioni di governo, dalla scelta di un modello sociale. L’obiettivo per l’Europa deve essere quello di cambiare quei trattati che oggi strangolano le economie, come il fiscal compact. Il fantasma del debito pubblico, e quindi delle politiche del rigore, è ciò che va cambiato, praticamente e culturalmente. Non si tratta di una scelta che può essere fatta da un solo Paese ed in poche ore, ma è l’orizzonte verso cui muoversi. Per questo bisogna creare le condizioni perché l’Europa decida sugli Eurobond, strada necessaria per lo sviluppo.

In più, o meglio a premessa, formuliamo una proposta che troverete allegata in dettaglio al Piano del Lavoro. Si tratta della mutualizzazione del 20% del debito di ogni Stato e quindi di tutti i paesi dell’Eurozona. Strada che permetterebbe di abbattere significativamente i vincoli sul debito, di superare la ristrettezza della politica sul debito e di liberare risorse per lo sviluppo. Lo scontro vero che si gioca in Europa, quello tradotto nel rigore e nel fantasma del debito, è lo scontro sul modello sociale europeo, sulla funzione del welfare, sulla funzione del pubblico. Un’Europa senza compromesso tra capitale e lavoro, ovvero senza welfare, è un’Europa incomprensibile, che non apprende dalla sua storia, che non valorizza la sua potenzialità di competere nel mondo con qualità ed equità. L’Europa è il nostro riferimento.

Dall’Europa ci vengono vincoli. Non crediamo a quell’adagio tanto di moda del “ce lo chiede o impone l’Europa”, alibi per non assumersi la responsabilità di tante politiche inique e sbagliate. Veri, dicevano, sono i vincoli economici e finanziari. Continuando a lavorare per superarli, la nostra proposta di Piano del Lavoro si muove con un’idea di finanziamento che non gravi sul debito pubblico ma che operi redistribuendo la ricchezza, ovvero utilizzando risorse oggi concentrate nella disponibilità di pochi e, a nostro avviso, sottratte invece a tanti. Non è usuale partire dalle risorse, ma in questo caso è utile per inquadrare concretamente il Piano del Lavoro nelle politiche da farsi, a partire da quella fiscale.

Prima necessità, equità fiscale
La prima grande necessità si chiama equità fiscale, una seria progressività della tassazione e una tassa sulle grandi ricchezze, sui patrimoni e sulle rendite finanziarie mobiliari e immobiliari. Non mi soffermerò a lungo sull’evasione fiscale ma certo è una delle strade di finanziamento, soprattutto di sostegno nel tempo dei singoli progetti operativi che compongono il Piano. Non mi soffermerò a lungo perché le proposte sono note, ma in ogni occasione è necessario sottolineare come, dopo anni di propaganda pro-evasione, il tema può e deve tornare sui giusti binari.

In questo campo si sta affermando una rinnovata etica, che si è cercato di travolgere anche con minacce ed attentati ai lavoratori di Equitalia e delle Agenzie delle Entrate. Questo dà la misura di quale conflitto di modernità – in questo caso la parola è corretta – determini una politica vera di contrasto all’evasione fiscale. Una politica equa e basata sulla certezza del diritto, che deve raccogliere sempre più consenso e dotarsi di una strumentazione certa quale tracciabilità e moneta elettronica, perché ciò che emerge non si risommerga l’anno successivo. Le risorse devono essere individuate anche attraverso un uso programmato e oggettivo dei fondi europei e dallo scorporo degli investimenti dai criteri del Patto di stabilità interna. Proponiamo inoltre due fronti di risorse non a debito, oggi non valorizzate.

Vogliamo ragionare dei fondi della previdenza complementare, a partire dai fondi contrattuali che, come si è visto in questi giorni, sono fonte di sicurezza per tanti lavoratori associati. La previdenza complementare è risparmio dei lavoratori, un risparmio ancor più essenziale dati i repentini cambiamenti della previdenza pubblica che ne diminuiscono il valore. Innanzitutto il risparmio dei lavoratori va protetto, garantito. Tuttavia è un patrimonio che, invece di restare nella gestione della sola finanza, può e deve essere impiegato per politiche di rilancio del Paese. Emerge ogni tanto l’idea che il risparmio dei fondi debba essere utilizzato più o meno direttamente verso le imprese, per la loro capitalizzazione. Vogliamo essere netti, non è questa la strada, primo perché il risparmio deve essere protetto e garantito, secondo perché verrebbe meno il fine collettivo che sempre guida le scelte di un sindacato. Utile, anzi necessario, è invece indirizzarlo verso politiche industriali ed infrastrutturali determinate da scelte pubbliche e condivise.

Ci preme a questo proposito ricordare come nelle tante polemiche sul welfare e sui suoi costi si ignori sempre quanta parte del welfare diretto o complementare è già finanziato da lavoratori e da imprese. È quello che fanno i tanti “fustigatori” che abbiamo nel nostro Paese, quelli che tramano contro la spesa pubblica e sociale e poi pensano di trasferire quel risparmio e quel finanziamento al sistema privato e assicurativo. Una evidente idea diversa di beni collettivi e di pubblica utilità, oltre che di riconoscimento della contrattazione collettiva. Noi non ci stanchiamo e non ci stancheremo di ripetere che questo risparmio va garantito. Meccanismo possibile, anzi già attuato, giustamente, per il risparmio postale. Non a caso Cassa Depositi e Prestiti agisce sul risparmio postale, garantito dallo Stato.

Abbiamo detto che quella dei fondi è una risorsa importante , ancora una volta un contributo del mondo del lavoro, la cui strumentazione è facile da predisporre. E questo ci porta al secondo canale, quello della Cassa Depositi e Prestiti, una modalità oggi molto ridotta di finanziamento rispetto a Francia e Germania, che fanno delle loro casse un grande volano degli investimenti e degli indirizzi di politica industriale e delle reti. Pensiamo che Cassa Depositi e Prestiti debba e possa allargare le sue potenzialità e metterle al servizio di scelte di politica industriale. Nel testo troverete un compiuto ragionamento sulla sostenibilità finanziaria del Piano del Lavoro, con una simulazione del CER che la calcola e la argomenta, ed essendo una simulazione è costruita per ipotesi, come se il 2013 fosse già anno a regime.

Il lavoro, come crearlo e come difenderlo
Ma torniamo al cuore della natura del nostro Piano del Lavoro: il lavoro, come crearlo e come difenderlo. Nel tracciare il quadro di dove siamo abbiamo detto, il mondo ha detto, gli economisti pentiti e non hanno detto, che nulla più sarà come prima. Questo può aiutare ad uscire dalla retorica delle tante ricette sentite: le esportazioni risolveranno tutto; le infinite e sbagliate riforme del lavoro che come le pensioni vengono lette come rigidità da cancellare. O ancora, il pubblico che deve ridursi, il piccolo è bello, l’impresa centrale è autosufficiente ovvero autoassolta. O ancora come quando sentiamo dire che l’industria non è il futuro, sostituito nella fantasia di qualcuno da un rigoglioso terziario, dai consumi alla domenica o alla visione di sterminate ed incontaminate mete turistiche. Le abbiamo sentite tante volte, le abbiamo viste praticare, soprattutto le abbiamo contrastate.

Non si può riproporre ad un Paese sempre più in difficoltà, sfiduciato e che non vede la luce all’orizzonte, l’idea che il lavoro, la condizione di lavoratori e pensionati siano sempre la sola variabile da comprimere. Un modello costruito sull’idea degli anziani come un costo e non una risorsa, lo stato sociale un “privilegio” da ridurre e il Paese un oggetto da consumare insieme all’ambiente e alla salute. Abbiamo bisogno di guardare al Paese come è, nelle sue difficoltà, nelle sue miserie, ma soprattutto nelle sue straordinarie potenzialità. Guardare alla crisi che dura già da cinque anni e che non accenna a finire, che ha bisogno di scelte vere e strutturali.

Alla crisi che cinque anni fa si poteva contrastare con le politiche anticicliche ma che oggi, da sole, non rappresentano una risposta sufficiente, e questo ci dà la misura della profondità della crisi. Rimanere in quel recinto retorico è la vecchia idea che non permette di uscire dalla crisi, è l’idea del lasciar fare, del mercato che si autoregolerà nuovamente. Serve un’altra idea e, come dicevamo, serve un governo. Un’altra idea che riconosca i limiti dell’agire di tanti anni trascorsi e valorizzi le potenzialità partendo dalle risorse che ha il nostro Paese. Ovvero una straordinaria versatilità e creatività del lavoro, quella che determinò il boom economico e che è la risorsa del made in Italy e poi il suo territorio, nel senso compiuto e non solo geografico della parola.

Un territorio che troppo spesso ci appare come il mappamondo pieno di cerotti di Mafalda, e abbiamo lo stesso sguardo sconsolato, il sottotitolo dice “quanto spreco e quanta inutilità”. Il nostro territorio è geograficamente ben collocato, denso di patrimonio naturale, arte e cultura più di qualunque altro Paese del mondo. È la nostra risorsa, la nostra materia prima. È fonte di economia e ricchezza, visto che quelle che sono tradizionalmente intese come materie prime non le abbiamo e sono sempre e comunque da importare. Se vogliamo essere brutali, oggi questa nostra ricchezza è un costo ed un bene pubblico in estinzione, o meglio in rapido consumo. Allora, la priorità del nostro Piano del Lavoro, che coniuga emergenza e medio periodo, è esattamente quella della messa in sicurezza del Paese e per questa via progetta la creazione di lavoro per giovani donne e giovani uomini.

Una messa in sicurezza non fatta di cerotti, ma di prevenzione e cura, salute del Paese. Una cura che duri nel tempo, che si trasformi oltre che in salute, in ricerca e innovazione dei processi, delle tecnologie, dei materiali che si utilizzano, della sostenibilità. Territorio che si collega a scelte di politica industriale, nuovamente sfruttando le competenze ampie ed importanti del nostro Paese. L’Italia, tante volte prima nel mondo, come produttrice di macchine utensili, può cimentarsi in tecnologie dedicate alla salvaguardia del Paese. Penso al ciclo dei rifiuti e al consolidamento del territorio. Per questo dicevamo non cerotti ma un lavoro di cura, che accompagna ricerca, innovazione, nuove tecnologie applicate e quindi lavoro qualificato. Territorio come patrimonio artistico e culturale, che va reso fruibile, su cui nuovamente investire, che sia luogo fertile per accogliere e produrre le migliori tecnologie per la conservazione, come per tanto tempo è stato, che sappia esportare conoscenza e metodi e non invece doverli importare.

Come si vede, un Piano straordinario di occupazione qualificata, stabile e corredata delle tutele e dei diritti universali, favorito anche da un piano di incentivazione delle assunzioni. Un Piano straordinario che si articola in bonifiche, manutenzione, valorizzazione, ricostruzione, determinazione di un nuovo ciclo economico e sottrazione all’illegalità. Un Paese riqualificato, che fa tornare il territorio fruibile, propone anche l’occasione per ragionare di quella che dovrebbe essere la nuova riforma agraria, ovvero la qualità dell’insediamento, i prodotti tipici, l’accorciamento della filiera distributiva, il ciclo integrato con la trasformazione, ma anche protezione, utilizzo ed abitabilità del territorio oggi abbandonato, dell’insediamento boschivo.

Come vedrete non giochiamo con i numeri dei singoli progetti, non abbiamo l’idea di vendere sogni. Vogliamo percorrere strade di moltiplicazione di lavoro che rappresentino una concreta prospettiva. Quando indichiamo la creazione di lavoro – attraverso il territorio da mettere in sicurezza, il patrimonio artistico e culturale, i giovani da assumere – abbiamo uno sguardo nazionale e una particolare attenzione al Mezzogiorno del nostro Paese. Abbiamo sempre pensato che non vi è prospettiva per l’Italia se non si riduce drasticamente il divario che si è creato e sottolineiamo che nel Mezzogiorno la disoccupazione delle donne è oltre l’allarme sociale.

Guardiamo con attenzione al Mezzogiorno perché la nostra proposta ed il suo metodo di attuazione può e deve correggere le logiche sbagliate dell’utilizzo dei fondi europei, altra importante risorsa per alimentare il Piano del Lavoro. Teniamo a sottolineare che tutti i nostri progetti operativi mirano a produrre ulteriori accorciamenti delle distanze, convinti come siamo che politiche eguali in contesti diseguali generino maggiori diseguaglianze. Ed altrettanto convinti che l’Italia può uscire dalla crisi se è tutta insieme. A pezzi si aggrava la crisi. Al Piano straordinario per i giovani si affiancano i progetti di “sistema Italia” e le proposte di riforma a nostro avviso necessarie. Non elencherò tutti i singoli progetti che trovate nel Piano sui quali vi saranno ulteriori approfondimenti e confronti.

Istruzione, P.a. e legalità, le riforme necessarie
La prima straordinaria riforma di cui ha bisogno il nostro Paese è quella dell’istruzione. In questi anni abbiamo avuto tagli e i risultati sono dinnanzi a tutti: aumento della dispersione scolastica, riduzione delle iscrizioni all’università, cervelli in fuga, blocco della mobilità sociale, regressione culturale sulla scuola dell’infanzia. Fino a generare in tanti giovani l’idea che studiare è inutile, lasciando che entrino così in un circuito di marginalità. Un vero record nel secolo della conoscenza. Sviluppo della scuola dell’infanzia, obbligo a 18 anni e diritto allo studio sono l’asse portante di una riforma che ha per fondamento l’istruzione come risorsa collettiva e dei singoli e l’educazione permanente come necessità individuale e sociale.

Il welfare è parte integrante delle proposte del Piano del Lavoro, perché welfare è motore di sviluppo, perché è cittadinanza, perché riduce diseguaglianza, contrasta la marginalità perché affronta il cambiamento demografico, permettendo ad ognuno di esserci fronteggiando solitudini ed isolamenti. Il welfare in questi anni è stato solo tagliato, non riformato. Nella logica dei tagli e della riduzione del perimetro pubblico, quella che ha determinato una regressione della Pubblica Amministrazione, della sua qualità ed efficienza. Nell’adagio ripetuto e sbagliato dell’eccesso di spesa pubblica, non si è mai detto che si spende molto, ma si spende poco per il lavoro e per le politiche sociali dei servizi. Meno che negli altri paesi Europei.

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Per questo pensiamo che qualità, estensione a rinnovamento del welfare si debbano accompagnare alla riforma della Pubblica Amministrazione e al completamento, meglio alla definizione, dell’assetto istituzionale. Assetto istituzionale oggi malato grave a causa dell’infinita incertezza e per l’assenza di una architettura certa di ruoli e competenze, dentro l’urlo del federalismo e la centralizzazione delle risorse. Una riforma della Pubblica Amministrazione che guardi alla certezza, all’universalità ed alla semplicità delle norme fondamentali e dei servizi. Ad esempio, tornando al territorio, è credibile che ogni terremoto debba determinare l’inseguimento di leggi e norme che diventano contraddittorie e poi, dopo 4 anni, lasciano ancora nell’incertezza la ricostruzione del centro storico de L’Aquila?

Serve la responsabilità delle funzioni, la non sovrapposizione di queste, la responsabilità delle direzioni, la certezza delle procedure. Una riforma della Pubblica Amministrazione che abbia a fondamento l’ordinarietà e la certezza del diritto, non il commissariamento ad ogni problema. L’idea di ordinarietà è la prima straordinaria semplificazione. Una Pubblica Amministrazione che si riorganizzi e quindi che restituisca alla certezza contrattuale il rapporto di lavoro e alla contrattazione l’organizzazione del lavoro; che definisca inoltre i criteri di reclutamento e abolisca la precarietà. Noi rivendichiamo con orgoglio che nostra è stata l’idea della privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico.

Abbiamo contrastato, spesso inascoltati in nome dell’ideologia della modernità, i ritorni indietro, l’insistenza a determinare un governo politico e non contrattuale del lavoro pubblico. Una politica che tagliava linearmente gli organici e moltiplicava il precariato, cancellando nei fatti le regole del reclutamento per concorso. Che preferiva insultare i lavoratori invece che riformare l’organizzazione del lavoro e misurarsi con l’efficienza delle risposte ai cittadini. Una politica che ha preferito alimentare il mercato rispetto alle funzioni pubbliche, pensiamo alla sanità, rimpinguando un privato non necessariamente di eccellenza, per non investire nella qualità del servizio pubblico. Che oggi reagisce a tutto questo mettendo a rischio le prestazioni essenziali universali.

Oggi rivendichiamo la scelta di voler avviare una nuova riforma della Pubblica Amministrazione, la cui premessa è il completamento della contrattualizzazione del rapporto di lavoro: dalla certezza della responsabilità dei dirigenti alla necessità di confronto e definizione dell’organizzazione del lavoro. Una riforma che abbia a cuore il rapporto con i cittadini, che non possono e non devono vivere il rapporto con la Pubblica Amministrazione come fosse un labirinto ad ostacoli. Potremmo dire che i servizi pubblici hanno bisogno di coccole: coccole come cura del e nel servizio pubblico, accoglienza come attenzione agli addetti e agli utenti che insieme possono determinare una migliore qualità delle prestazioni. Questo si può fare non segmentando in contratti diversi prestazioni uguali, non corporativizzando per professioni, ma considerando il concerto di professionalità che costituiscono un servizio, decentralizzando e considerando il territorio il luogo dove i cittadini incontrano le Pubbliche Amministrazioni, quindi dove accorpare e mettere in rete i servizi.

Abbiamo visto tagli, non riforme, e soprattutto non innovazione di cui ci sarebbe un gran bisogno; questo presuppone tanta formazione, formazione permanente e di qualità con trasparenza dell’accesso al lavoro e alla formazione. Perché l’innovazione non può essere intesa e misurata solo come quantità, deve essere soprattutto valutata per la qualità. Il pubblico sia di esempio, si verifichino sul piano dei costi e dei benefici le esternalizzazioni e si cancelli definitivamente la prassi degli appalti al massimo ribasso. La terza riforma che indichiamo nel Piano del Lavoro per lo sviluppo per il Paese è quella della legalità. Dal falso in bilancio, alle norme anticorruzione, al reato di autoriciclaggio, a quello di caporalato per le aziende che lo utilizzano, la legalità non è solo riscatto etico del Paese, mobilitazione sociale e civile, è una grande risorsa economica, come lo è la lotta all’evasione e al sommerso. La crisi, le politiche svolte in questi anni, hanno determinato una condizione anche culturale che considera il lavoro solo oggetto da ridimensionare, il mercato del lavoro il supermarket delle bizzarrie per ridurre i costi, il riposo dopo il lavoro una lontana prospettiva. Tutto questo, unito alla riduzione di servizi, sanità, istruzione ha messo in discussione le condizioni di molte persone, ha appannato la prospettiva.

Certamente avrete visto che in ogni passaggio dai progetti alle riforme, teniamo sempre a qualificare il lavoro, la buona occupazione, l’investimento in qualità e la formazione. La nostra passione è un lavoro qualificato e tutelato, ma la nostra certezza è che tra le ragioni del declino del nostro Paese c’è la svalorizzazione del lavoro. Quello povero impauperisce i consumi, quello non formato riduce la qualità, quello precario non utilizza né saperi, né creatività. Il lavoro cattivo dequalifica il sistema produttivo e deprime la produttività. La qualità del lavoro è non solo la corretta traduzione dei principi costituzionali, ma è di per sé fattore di sviluppo.

Un lavoro di qualità accresce saperi e competenze ed insieme agli investimenti produce innovazione. Un’importante condizione per la crescita della produttività non è solo la politica industriale, ma un sistema di imprese che torni ad investire e scommettere sull’innovazione. Sono le premesse per tornare a crescere in produttività, crescita di cui abbiamo uno straordinario bisogno. È questo l’altro lato dei nostri progetti, la produttività dei fattori di sistema, la contrattazione nel pubblico, a partire dai rinnovi dei CCNL, e nel privato, che riporti al centro l’organizzazione del lavoro, la prestazione lavorativa e i salari. Partiamo dall’accordo del 28 giugno per determinare le regole della democrazia e della rappresentanza, per definire il sistema di regole della contrattazione, la sua funzione.

Rivendichiamo il valore di un’intesa unitaria, perché non rinunciamo all’unità sindacale come valore, strategia per i lavoratori. Regole e certificazione della rappresentanza sono necessarie perché le relazioni industriali, la contrattazione riacquistino quella certezza di regole e di democrazia che oggi manca. Trasparenza e certificazione della rappresentanza sono una grande risposta a tutti coloro che vogliono screditarla per mettere in discussione la funzione del sindacato, soggetto essenziale per la partecipazione e la democrazia. Il mondo del lavoro e quello dei pensionati possono fare molto nel mobilitare l’Italia, costruire obiettivi, innovare il Paese. Sicuri di questo, rivendichiamo misure di certificazione della rappresentanza di iscritti ed eletti e regole, non solo perché certi della forza della nostra organizzazione, ma soprattutto perché siamo convinti dell’essenzialità del sindacato che organizza i lavoratori e contratta.

Contrattazione è per noi anche contrattazione territoriale e sociale. Se scorrete il Piano del Lavoro troverete sempre descritto il metodo di partecipazione e condivisione dei progetti, nella definizione nazionale, nelle articolazioni o nei progetti locali. La contrattazione nel territorio è anche questo, insieme alla definizione delle politiche sociali e di cittadinanza. Una società complessa, diversificata per condizioni, richiede, direi impone, la contrattazione sociale quale strumento per la diffusione di un welfare locale omogeneo nel Paese, anche come occasione di crescita e buona occupazione, veicolo di innovazione e arricchimento sociale.

Puntare su politica industriale, ricerca e innovazione
Provo a tracciare le indicazioni fondamentali: la politica industriale e la programmazione; dalla ricerca pubblica da sostenere seriamente, all’incentivazione di quella privata; le nuove tecnologie e l’innovazione; il risparmio e le reti. Consideriamo l’industria pubblica come motore e catalizzatore di altri investimenti, non un bene in saldo al miglior offerente. Si possono fare tanti esempi, anche per dare senso alle scelte di investimento. Mi limiterò ad alcuni: come immaginare un serio investimento se non si agisce sulle reti e sull’innovazione dei materiali dell’edilizia?

Come affrontare le infrastrutture di mobilità se non ci si pone il tema di un sistema pubblico di trasporto integrato, dal livello locale a quello nazionale, e se non si è produttori di mezzi di trasporto collettivi, dai treni agli autobus? Ed ancora, come si può immaginare investimenti e infrastrutture rispettose del consumo di territorio ed ambiente se non viene definita una politica, le priorità e se non si sottraggono al patto di stabilità interna i quattrini per gli investimenti che le amministrazioni locali oggi conservano a futura memoria? Se nulla sarà più come prima, questo vale innanzitutto per la produzione industriale dei servizi. Non è solo attenzione ai cicli produttivi, tema fondamentale per ricostruire un governo della prestazione lavorativa.

È soprattutto un’idea di trasformazione verso un’industria migliore per produzione e prodotti sostenibili. Vi è nel nostro Paese un vento pericoloso; quello che fa coincidere produzione industriale, soprattutto quella pesante, con veleno. Una simile equazione porta inevitabilmente a cancellare e chiudere. Come se il nostro Paese fosse sfiduciato, incredulo della possibilità di produrre “pulito” e dall’efficacia della trasformazione. Un dibattito spesso inquinato anche dalla scarsa conoscenza della complessità del ciclo produttivo, dell’importanza dei materiali. Un salto rapido di qualità va fatto nella determinazione delle migliori tecnologie antinquinamento, come indica la direttiva europea e nella certezza delle regole.

Il nostro Paese da tanto tempo, negando il lavoro come produttore di ricchezza, non si interroga più su come esso funziona, quali legami, come opera; si sarebbe detto una volta, la catena del valore. Come non conosce il lavoro e non si interroga sulle sue trasformazioni. A questa idea destrutturatrice dell’industria del nostro Paese, si somma quell’altra filosofia, tante volte vista all’opera in questo periodo che, quando sente l’espressione “crisi di un’azienda”, di un gruppo, la trasforma in “azienda decotta” e quindi da chiudere. Questo modo di pensare, intanto, non fa i conti con la profonda crisi del sistema produttivo e il rischio che scompaia un quarto del sistema. Quando diciamo che insieme a cercare lavoro bisogna difenderlo, pensiamo esattamente a questo. Vogliamo conservare tutto così com’è? No, o meglio, non è tutto uguale e non per tutto vale solo la difesa.

Ma soprattutto, una politica industriale deve guidare nella trasformazione alla produzione verde, a nuovi prodotti che guardino alla sostenibilità oggi e domani. Esperienze ci sono: pensiamo alla chimica verde, a materiali che non diventano rifiuti indistruttibili. Troppo poco rispetto alla necessità. Eppure non c’è settore che non possa proporsi questo traguardo. Dal packaging nell’industria alimentare, al riciclo, ai nuovi materiali, c’è un campo infinito di materialità della produzione e di prodotti che può essere innovato e rivoluzionato. Certo è la responsabilità delle singole imprese, ma lo è anche del governo, della scelta pubblica che deve indirizzare la domanda, scegliere, commissariare, indicare vincoli e prescrizioni, ma soprattutto alimentare la ricerca in quella direzione. Individuare priorità.

Anche in questo caso, come nelle crisi aziendali che non sono chiusure da programmare, vi è da cambiare il modo in cui si calcolano i costi; non solo quelli sociali, ma gli effetti di risparmio che un prodotto sostenibile ha rispetto ad un altro, oltre ai risparmi che si determinano con la riduzione delle politiche di risanamento. Così si determina che non sono nuove risorse da investire, ma da un lato spesa, dall’altro risparmio. Sull’inquinamento si sono trovate soluzioni di tasse, in realtà multe da pagare. Una strada che se non si traduce in incentivazione al cambiamento, quindi di nuovo spesa e risparmio, rinvia il problema ed aggrava il consumo del pianeta, del territorio. Un’altra ragione della necessità di un governo e di una visione compiuta del Paese e delle politiche da realizzare.

Un’altra ragione contro i cerotti, per una politica che coniughi emergenza e medio periodo. Questa idea si chiama, si è sempre chiamata, programmazione e coinvolgimento di tutti i soggetti verso quel bene collettivo che è il Paese. Non è dunque una bestemmia né un pericolo sovversivo, è la scelta di ricondurre l’intervento pubblico alla sua natura e, perché no, di riabilitare la parola stessa. Se si ha un’idea positiva di futuro bisogna misurarsi con l’intervento pubblico in tutte le sue caratteristiche, da datore di lavoro, in certi casi anche di ultima istanza, a costruttore di domanda, a sostenitore di scelte, ad effettivo conduttore delle imprese partecipate, a generatore e gestore di servizi e quindi di welfare. Ma intervento pubblico è anche qualità dello Stato e delle sue istituzioni, e quindi riforme. “Riforma” è sempre più parola malata; lo abbiamo visto con quelle realizzate in questi anni, che non hanno migliorato le condizioni di molti determinando un compromesso più avanzato, ma hanno tagliato risorse, condizioni e prerogative, in qualche caso alterando persino il patto di cittadinanza. Allora vorremmo essere chiari, per noi la parola “riforma” torna al senso originale, cambiare per ridurre diseguaglianze, per dare risposte eque ed efficaci, per traguardare lo sviluppo, non per ridurre lo spazio pubblico e di cittadinanza.

Il Piano del Lavoro per uscire dalla crisi
Il Piano del Lavoro è la nostra proposta per uscire dalla crisi, la traccia con la quale indichiamo che Paese potremmo essere, l’idea di un nuovo modello di sviluppo che generi benessere. Non nascondiamo che è una proposta che si confronta con una composizione di parametri del PIL ben più ricca e vasta. Un adagio di questi anni, dicevamo, è il welfare come costo, è il welfare che non deve più essere lavorista, è il cambiamento della popolazione, dai migranti all’allungamento dell’aspettativa di vita, che lo rendono un costo insostenibile nel tempo e così via. Una litania infinita. Abbiamo detto che rivendichiamo la riforma della Pubblica Amministrazione, essenziale sia per il welfare che per la programmazione.

Un welfare che rimetta al centro le persone e la loro condizione con la misura dei fabbisogni, l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie e socio-assistenziali. Un welfare pubblico che può essere integrato da quello contrattuale o dagli accreditamenti, ma non sostituito. Ma quando sentiamo non lavoristico, vorremmo ricordare che tanta parte del welfare è già determinata dal contributo delle imprese e dei lavoratori. E se la legge sugli ammortizzatori è così sbagliata è proprio perché non ha saputo misurarsi con l’origine del finanziamento del sistema, renderla omogenea e mettere risorse per renderla universale, disponibile anche al mondo del precariato e del lavoro parasubordinato, atipico, mentre si aveva in animo di cancellare quanto già finanziato dalle parti. Ma analogo ragionamento possiamo fare per la formazione e per la previdenza complementare. Tanti aspetti del welfare che non devono essere trasformati in assicurazioni individuali, cancellandone la natura universalista. Ma confutato questo adagio sul welfare, ribadito che è produttore di sviluppo, generatore di occupazione, serve un cambiamento del sistema. Cosa vuol dire nuovo welfare, welfare territoriale, con che problemi si deve misurare? Abbiamo visto tanti tagli, non riforme.

La composizione della popolazione muta, si allunga la vita, ci sono esigenze che slittano nel tempo, c’è un grande tema di invecchiamento attivo, che non può essere solo allungamento infinito degli anni di lavoro, così come il ponte generazionale abbiamo capito essere tutto nuovamente a carico delle parti. Ma se è così, questo welfare non funziona con la nuova legge delle pensioni e il metodo contributivo ad attuali coefficienti. Ma la popolazione muta nelle solitudini, nei bisogni che si vedono e che vanno rilevati. Ci vogliono politiche di domiciliarità per la non autosufficienza, favorendo l’autonomia ma non trasformandola in solitudine. Serve un’idea vera di politiche attive di sostegno al reddito, formazione, diritto allo studio dalla primissima infanzia. Ovvero nuovo welfare non è un esercizio teorico, è misurarsi con le persone, in un grande rispetto delle loro scelte nell’attenzione alla coesione sociale, come abbiamo detto parlando di contrattazione sociale.

Nel Piano del Lavoro di cui siamo soggetto promotore e attore non solitario, abbiamo detto che nessuno è autosufficiente e che non ci vogliamo sostituire ad alcuno. Riteniamo che tra le pagine da voltare, nel “nulla sarà come prima”, c’è anche quella compiuta con la svalorizzazione della rappresentanza sociale, e di quella del lavoro in primis. Poniamo esplicitamente il problema del riconoscimento e del rispetto. Non è riconoscimento e rispetto quel tramestio che caratterizza la campagna elettorale in corso, che non distingue i ruoli, che confonde responsabilità, che cerca nemici per non provare a misurarsi sui contenuti, che scarica responsabilità per non ammettere che ha trascurato il Paese. Abbiamo delineato la priorità, il lavoro, una proposta per l’emergenza, i giovani e la creazione di posti di lavoro, la riorganizzazione del Paese con i progetti operativi. Abbiamo cioè indicato la necessità di un nuovo compromesso sociale. Lo abbiamo qualificato non guardando a come eravamo, ma come scelta per determinare la qualità di quel “nulla sarà più come prima”.

Governare quel cambiamento è progettare il futuro che dobbiamo cominciare a costruire nel presente. Una nuova stagione di partecipazione, di condivisione, di conflitto positivo, non preventivo e non fine a se stesso. Per questo, lo diciamo ai nostri ospiti, vedremmo con orrore un’interlocuzione tipo “il vostro programma è il nostro”. L’esperienza ci dice che è strada sbagliata e scivolosa. Sbagliata perché quando diciamo “ci vuole un nuovo compromesso sociale” non pensiamo ad un patto generale, magari di legislatura. Il Piano del Lavoro è una proposta compiuta che mettiamo a disposizione del Paese, intorno alla quale crediamo possa crescere un dibattito e una mobilitazione collettiva, che dovrà e potrà vedere accordi generali o più specifici, tra parti e non tra partner. Il fine, cioè, è il merito delle cose che si faranno, non il metodo.

Il Piano del Lavoro è l’oggi e i prossimi anni. Sarà per noi la misura del cambiamento e dell’idea di sviluppo del Paese. Non ci distrarrà dall’idea che priorità nel Piano del Lavoro è creare lavoro per i giovani, ma serve subito, lo dico nuovamente ai nostri ospiti, dare un segno della qualità politica di una nuova stagione affrontando alcune scelte che tra l’altro non costano. La prima è senz’altro la cancellazione dell’articolo 8 e dell’articolo 9: se l’articolo 8 è quel passo indietro che la legislazione deve fare perché la contrattazione sia libero esercizio delle parti, non costruzione derogatoria e cancellazione delle certezze contrattuali, l’articolo 9 è un problema di civiltà, di necessità di inclusione dei diversamente abili, di dignità e rispetto, che mai troverà risposta nella costruzione di ghetti.

La seconda è la legge sulla democrazia e rappresentanza a cui proviamo a contribuire lavorando per l’accordo tra le parti. Mentre temiamo che urgenza ed emergenza restino gli ammortizzatori in deroga e la soluzione per gli esodati. Non si ferma ovviamente qui l’elenco delle necessità, quelle che al governo che verrà dovremo proporre: dal come si ripara ai guasti dei tanti tagli e delle tante iniquità, alle leggi da correggere che dovranno accompagnare quella riorganizzazione del Paese che abbiamo tracciato. Il Piano del Lavoro nel 1949/50 indicava le scelte del Paese, indicava che cosa CGIL, lavoratori e lavoratrici, pensionati avrebbero messo al servizio del Paese. È stato nel tempo tradotto negli “scioperi alla rovescia”, definizione in realtà sbagliata.

Il Piano del Lavoro fu sorretto da tante lotte e mobilitazioni, ma certo allora si mise a disposizione lavoro per ricostruire infrastrutture e per progettare consumi per un mondo del lavoro che ben pochi consumi poteva permettersi. Abbiamo riflettuto su quell’esperienza. Nel vedere la somiglianza e le differenze abbiamo colto il chiamare alla mobilitazione di tutti per indicare degli obiettivi e per porre degli interrogativi, perché non è solo proporre, è anche come si contribuisce oltre il quotidiano e strategico fare. Abbiamo riflettuto sull’imperativo categorico del creare lavoro, definendolo come buon lavoro qualificato.

Abbiamo riflettuto sull’esperienza del Paese, sugli effetti dell’innalzamento dell’obbligo scolastico e, pochi anni dopo, sui processi di ri-alfabetizzazione, sull’accesso all’istruzione anche per chi ne era stato escluso. Per usare la formula di allora, pensiamo che dobbiamo accompagnare il Piano con le 150 ore “alla rovescia”. Il lavoro, diciamo sempre, ha grandi saperi. Li ha sul lavoro stesso, sui prodotti, sulla contrattazione, sulla sicurezza e salute, sulla tutela individuale e collettiva, e tanti altri saperi e conoscenze.

Le nostre Camere del Lavoro sono state da sempre anche luogo di istruzione. Abbiamo insegnato la lingua italiana agli stranieri, abbiamo voluto la traduzione delle segnalazioni di sicurezza nei cantieri. Il nostro mondo, dai pensionati ai lavoratori, è una miniera di esperienza, conoscenza, saperi e di desiderio di apprendimento. Allora questa sarà la nostra sfida nella sfida, essere “maestri”, trasmettitori di conoscenza, interlocutori e progettisti dei programmi operativi del nostro Piano, propagatori di una cultura positiva del lavoro. Non sostituti delle funzioni istituzionali, ma promotori, come nelle 150 ore, dell’istruzione come diritto collettivo e permanente, oltre i cicli scolastici e l’età, anche come risposta ai desideri.

In quest’epoca schiacciata sul presente, condizionata da un contingente che cancella valori, abbiamo voluto alzare lo sguardo, tradurre quel “noi non ci rassegniamo” e “cambiare si può” con cui abbiamo colorato le tante piazze della nostra lunga mobilitazione di questi anni. Sappiamo di avere la responsabilità verso quei tanti che hanno guardato e guardano a noi per mantenere fiducia nel futuro; abbiamo l’orgoglio di avere tenuto aperta la prospettiva quando troppi abbassavano le bandiere; abbiamo l’idea che il lavoro sia l’unico vero soggetto di trasformazione positiva.

Abbiamo tradotto tutto questo nel Piano del Lavoro, una proposta che è aperta al contributo e al confronto, tracciata nella linea fondamentale, ma che ancora può e deve crescere. Una proposta che, lo ribadiamo ancora una volta, non è il libro dei sogni, non dà i numeri, ma costruita per progetti, dà concretezza ed immediatezza, celerità di risposta alla disoccupazione dei giovani e delle giovani. Un Piano per prendersi cura del lavoro e del Paese. Prendere in carico e curare sono parole inusuali nel lessico politico, emergono solo quando si parla degli affetti e dei compiti delle donne, a proposito di modernità e cambiamento. Le donne non solo curano, ma cambiano il lavoro, il mondo, il benessere di tutti, per questo prendersi cura parla a tutti ed è responsabilità di tutti. Il Piano del Lavoro lo porteremo nelle assemblee, nelle nostre rivendicazioni, nel nostro agire quotidiano.

Italia fondata sul lavoro
“Fondata sul lavoro è la nostra Repubblica, Fondata sul lavoro è la nostra idea di società. Fondata sul lavoro è la Tessera del 2013. Fondata sul lavoro: perché senza lavoro non c’è futuro, perché senza lavoro vince la paura e l’insicurezza, perché senza lavoro vince la disperazione sociale. Fondata sul lavoro perché curiamo il nostro Paese, sappiamo che ha risorse straordinarie, perché per curare il Paese bisogna aver cura del lavoro e così avremo cura dei cittadini”. Così conclude Camusso.

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