Veleni di Stato. Nasce il coordinamento contro l’inquinamento dagli arsenali segreti

L’Italia vittima delle armi chimiche fa sentire la sua voce

ROMA – Il conflitto in Libia rilancia l’allarme sullo spettro delle armi chimiche accumulate da Gheddafi in grande quantità. Ma ci sono molti comuni italiani che da almeno settant’anni sono vittime degli stessi veleni. Dalla Tuscia alla Lombardia, dalle Marche alla Campania, dal Lazio alla Puglia. Terreni, stabilimenti e discariche sottomarine continuano ad ospitare l’eredità del colossale arsenale di armi chimiche creato dal fascismo e nascosto dai governi della Repubblica. Adesso un gruppo di associazioni e comitati hanno deciso di riunirsi per chiedere che questa scia di morte venga spezzata, invocando che venga finalmente fatta chiarezza sui rischi di questa bomba sepolta nel mare e sul territorio del nostro paese.

Il Coordinamento Nazionale per il monitoraggio e la bonifica dei siti contaminati da ordigni bellici chimici inabissati o interrati durante e dopo il secondo conflitto mondiale si è riunito la scorsa  settimana nella sede laziale di Legambiente. Il Coordinamento è formato da rappresentati di associazioni e comitati operanti nelle zone più colpite in Italia: Lago di Vico, Molfetta, Colleferro, Ischia, Pesaro e Cattolica, ma presto entreranno a far parte del nutrito gruppo nuove realtà in rappresentanza di altre aree fortemente colpite in Lombardia, Piemonte, Lazio e Abruzzo.

Il problema di questi residuati bellici ha origini lontane, ma gli effetti sono ancora attuali. L’arsenale chimico venne creato dal regime fascista all’inizio degli anni Trenta ed è stato il cuore di un programma industriale di armamento colossale, con impianti per distillare gas letali come iprite, arsenico e fosgene in decine di fabbriche costruite dalla Puglia alla Lombardia.
Durante la guerra a questa sterminata riserva di ordigni mortali, solo in minima parte usata nelle spedizioni coloniali di Libia ed Etiopia, si aggiunse una scorta mostruosa di bombe chimiche trasferita in Italia dagli Alleati. Alla fine del conflitto queste armi sono state nascoste e dimenticate, senza bonificare i siti dove si producevano o le discariche dove sono state sepolte. Una quantità colossale di ordigni è stata gettata in mare dagli americani davanti alle coste di Ischia e a quelle di Molfetta, dai tedeschi davanti a quella di Pesaro mentre l’esercito italiano ha continuato a custodire e sperimentare i gas letali nei boschi del Lago di Vico e persino nel centro di Roma, a pochi passi dall’Università de La Sapienza.

Queste armi sono state progettate per resistere nei decenni e mantengono ancora oggi i loro poteri velenosi, soprattutto l’arsenico che si è disperso nei suoli come dimostrano le analisi condotte dalle forze armate nella zona del Lago di Vico o gli esami degli organismi sanitari a Melegnano nella provincia milanese, perché solo una minuscola parte delle strutture militari attive nel dopoguerra è stata parzialmente bonificata: la gran parte degli ordigni è stata nascosta in mare e in terra dal segreto.

Questa realtà è stata svelata nel volume-inchiesta “Veleni di stato” del giornalista Gianluca Di Feo, pubblicato da Rizzoli nel 2009, che porta a conoscenza documenti inediti e secretati e dà voce a denunce inascoltate e testimonianze dirette.

Grazie a questa pubblicazione, scrupolosa e mai smentita, molti comitati locali che avevano già iniziato un lavoro di ricerca e di denuncia sui danni ambientali e sulle conseguenze per la salute dei cittadini, hanno trovato la conferma a quanto si sosteneva da tempo. Ma soprattutto hanno preso coscienza del carattere nazionale di questo enorme problema, tuttora nascosto alla maggior parte delle persone, e hanno deciso di unirsi in un Coordinamento Nazionale per rafforzare le azioni e le richieste di monitoraggio e bonifica portate avanti dalle singole realtà, tuttora eluse da laconiche risposte del Ministero della Difesa che continua a negare informazioni e collaborazione.

La drammatica situazione a Colleferro

Per quanto riguarda Colleferro, attraverso documenti recuperati nei National Archives inglesi e considerati nei rapporti internazionali delle Nazioni Unite, è stato recentemente evidenziato che la Snia BPD, azienda madre bellica sul territorio, offriva negli anni Ottanta a paesi importatori di armamenti definiti “convenzionali” le modifiche affinché potessero essere trasformati in armi di distruzione di massa attraverso successivo inserimento di sostanze chimiche. In particolare ciò è dimostrato per il regime di Saddam Hussein. Gli armamenti in questione con ogni probabilità sono stati esportati anche in paesi della penisola arabica, del Nord Africa e dell’area mediterranea.
Posto che è ormai di dominio pubblico che in anni recenti sono state prodotte a Colleferro mine antiuomo e cluster bombs, nuove verità, quelle sulle armi chimiche, suggellano ulteriormente l’inserimento della città, con il suo percorso industriale e i suoi disastri ambientali, in una scia di infamia nazionale e internazionale.

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