PD-M5S. Salta l’incontro, non possumus del PD

 

ROMA – Tutta la vicenda dell’incontro col M5S, fatto saltare all’ultimo dal Partito Democratico, ha dell’incredibile. Lo dico da militante di questo Partito, che già in occasione della diretta streaming del primo incontro – che ha visto i giornali in un coro conformista con pochi precedenti osannare la prestazione di Matteo Renzi – aveva sentito un po’ di amaro in bocca. Da un lato, per la prima volta, da parte di Luigi Di Maio, una ricerca di dialogo – tardiva, certo, ma necessitata -; dall’altra un sostanziale non possumus del PD. 

Ora si dice addirittura, per bocca  dei dirigenti del mio Partito, che l’incontro salta perché il PD voleva le risposte scritte da parte dei pentastellati sui dieci punti in discussione. Da che mondo è mondo, così non si dialoga, così si cerca il conflitto. Ma c’è qualcosa di più. Quello su cui facciamo fatica a leggere cronache obiettive in questi giorni, è l’assoluto corto-circuito democratico che Renzi e i suoi hanno determinato nel PD.

Non più tardi di giovedi scorso, infatti, a Palazzo Chigi si è tenuto un nuovo vertice con Silvio Berlusconi – una riconferma aggiornata del Patto del Nazzareno -, in cui i più informati raccontano che da parte di Forza Italia sia venuto un semaforo rosso invalicabile alla prosecuzione di qualsiasi dialogo col M5S. In ogni caso anche questo secondo incontro, come fu per il primo, senza alcuna diretta streaming, è stato la sede reale della decisione sulle riforme. Il direttorio Renzi-Berlusconi stabilisce la linea, e compito di entrambi i leaders è piegare costi quel che costi le resistenze interne. Paradossalmente oggi appare più democratico un partito personale come Forza Italia: nel PD si reagisce con la denigrazione morale o l’irrisione nei confronti di chi “dissente” (categoria che rimanda a epoche di intolleranza) o della semplice richiesta di discutere nel Partito e con gli altri in modo aperto, senza diktat e prepotenze. 

La democrazia non può funzionare così: 1) decide il direttorio Matteo-Silvio; 2) viene convocata la Direzione del PD, dove i numeri non garantiscono un equilibrio di poteri, chiamata a ratificare la relazione del segretario-premier; 3) i gruppi parlamentari si debbono adeguare alla linea decisa dalla Direzione; 4) i parlamentari che dissentono vengono preventivamente estromessi dalle Commissioni di merito.

Ben venga la recente presa di posizione di Pierluigi Bersani, dopoché per mesi Vannino Chiti e gli altri senatori sono stati isolati anche da chi al Senato a Bersani faceva riferimento. Ma trovo un po’ stucchevole la corsa ora a posizionarsi sulla legge elettorale, quando si sta per votare la riforma costituzionale, da parte di una minoranza che in sei mesi ha passato il tempo a dividersi in quattro o cinque correnti, in buona compagnia di Sel. 

A chi crede nei valori della democrazia si chiede ora un altro passo, un’altra generosità, una nuova determinazione. Qualcuno è capace di assumere un’iniziativa unitaria forte e decisa?

 

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