Il M5S e l’inizio del post-grillismo

ROMA – Rispetto a due anni fa, si fa persino fatica a riconoscerli. Entrati nelle istituzioni che sembravano sbarcati da Marte, i parlamentari del Movimento 5 Stelle sono oggi i più combattivi, i più preparati e anche quelli che ci mettono maggiormente l’anima, credendo davvero in ciò che fanno e nella possibilità di rendere migliore questo Paese.

Onore al merito perché nessuno di noi, io meno che mai, quando sono arrivati in Parlamento avrebbe scommesso un centesimo sulla loro tenuta; al contrario, nelle redazioni come nelle sedi di partito, ci guardavamo negli occhi l’uno con l’altro, sfoggiando un compiacimento tanto idiota quanto offensivo, e ci dicevamo che sì, avevano preso il 25 per cento ma sarebbero implosi presto, che non avrebbero retto, che avrebbero ceduto a loro volta alle lusinghe del potere e del palazzo, che sarebbero diventati come tutti gli altri se non addirittura peggio. Non è avvenuto e anche di questo va dato loro atto e anche per questo meritano un plauso e una profonda dose di riconoscenza.

E forse, non sbagliarono nemmeno a dire di no a Bersani: il PD, infatti, già allora non era più né Bersani né Letta, verso i quali sono convinto che molti esponenti stellini abbiano maturato nel tempo se non una concreta stima quanto meno una disistima assai minore rispetto ai primi tempi; era già renziano fino al midollo, un PDL in versione light, un Partito della Nazione in gestazione, una sorta di Partito della Leopolda (PDL, per l’appunto) che conservava ancora al proprio interno qualche vecchia gloria della sinistra che fu ma era ormai pronto ad emarginarla e a lanciarsi voluttuosamente verso le magnifiche sorti e progressive delle larghe intese  “sine die”.

Bersani non voleva tutto questo, non voleva governare nuovamente con Berlusconi, non voleva soluzioni politiciste, cioè non soluzioni, non voleva cedere alle pretese di Napolitano, già garante dell’esperienza montiana e noto sostenitore del minestrone centrista, e voleva comunque dar fiducia a questi ragazzi alla prima esperienza, se non altro per metterli alla prova, per farli crescere, per consentire loro di esprimersi al meglio e di far sbocciare un talento politico del quale, con ogni probabilità, Pierluigi si era accorto già allora, mentre molti di noi gli ripetevano di lasciar perdere e di arrendersi all’evidenza, all’ineluttabilità di una riedizione dell’esperienza montiana, sia pur con differenti rapporti di forza fra le varie compagini della maggioranza.

Bersani ci credeva davvero ma, nel momento decisivo, sbagliò tutto ciò che si poteva sbagliare: dapprima, di fatto, escluse i 5 Stelle dalle trattative per la scelta del Capo dello Stato, preferendo una mediazione al ribasso con Berlusconi; poi, quando gli si presentò, in maniera del tutto inaspettata, l’opportunità di eleggere una personalità straordinaria come il professor Rodotà, decise di tirare dritto sulla candidatura di Marini; infine venne tradito dal suo stesso partito quando, alla disperata, mise in pista la valida candidatura di Prodi, completando il capolavoro al contrario con la decisione di rieleggere Napolitano anziché insistere per trovare un’intesa con gli stellini sul nome di Rodotà. Un disastro totale dopo il quale nulla è stato più come prima, con l’ulteriore beffa di veder bruciato pure un galantuomo come Letta, costretto a governare in condizioni che non augureremmo nemmeno al peggior nemico, con una maggioranza rissosa, eterogenea e continuamente sottoposta alle richieste insostenibili di un PDL scatenato e desideroso di dar seguito a promesse elettorali populiste e demagogiche, formulate sapendo che non sarebbero stati chiamati a governare e imposte a un PD che si era presentato agli elettori con idee esattamente opposte pressoché su ogni argomento, benché, ribadisco, gli unici a credere ancora ad una prospettiva ulivista fossero, probabilmente, Bersani, la Bindi, Letta e alcuni parlamentari a loro vicini.

E noi giù a schernire, a godere per gli abbandoni, a definirli “fascisti” ogni volta che, spesso sbagliando, espellevano un dissidente, giù ad attaccarli con insulti durissimi, senza il benché minimo rispetto ma soprattutto senza seguire nemmeno per un momento un dibattito interno già allora molto interessante, nel quale andavano affermandosi posizioni diverse e visioni differenti sul da farsi, una dialettica abbastanza serrata e un confronto schietto sulla linea da seguire che li ha senz’altro aiutati a crescere e a migliorarsi.

Non a caso, rispetto al 2013 da quelle parti è cambiato quasi tutto. È cambiata, innanzitutto, la ragione sociale per la quale molti cittadini hanno deciso di sostenerli: all’epoca, la maggior parte delle persone li votò per rabbia, per dare un segnale agli altri partiti, per orientare un po’ più a sinistra Bersani, per mandare “tutti a casa” ma quasi nessuno, nemmeno fra gli attivisti più convinti, era davvero convinto che questo gruppo di sconosciuti che si conoscevano sì e no di vista potesse davvero governare il Paese. Oltretutto, molti di coloro che li hanno votati e che già allora guardavano a quest’insolita formazione politica con simpatia non stimavano più di tanto il duo Grillo-Casaleggio, motivo di repulsione per tutti noi che temevano l’arrivo dei barbari e degli incivili, sempre in virtù del fatto che non avevamo speso nemmeno un istante a cercare di andare a conoscerli da vicino e a capire le ragioni della loro scelta di candidarsi in un contesto così insolito.

Oggi è cambiato tutto: chi li vota sa cosa vuole e li sceglie perché rivendica un cambiamento radicale di un contesto socio-economico ormai insostenibile, il ritorno della sovranità popolare e istituzioni più aperte e trasparenti nonché composte da persone perbene e non impegnate unicamente a difendere i propri interessi. Non solo: Grillo e Casaleggio hanno finalmente capito di costituire più un ostacolo che un valore aggiunto per i propri ragazzi e, con un atto di generosità oggettivamente singolare nel panorama politico italiano, si sono defilati, tornando alle proprie attività precedenti e rimanendo come garanti del movimento che hanno contribuito a fondare e a far crescere. Al loro posto, oltre ai volti più noti del cosiddetto Direttorio, si sono affermati e stanno iniziando a farsi valere un gruppo di giovani di grandi prospettive, sui quali nessuno di noi si permette più di ironizzare, avendo capito, anche se molti non lo ammetteranno mai, che se adesso ci azzardiamo a guardarli dall’alto in basso, quasi con compassione, facciamo solo la figura degli arroganti.

Si è aperta, pertanto, una nuova fase: la fase del post-grillismo, testimoniata dall’inusuale scelta di togliere il nome del fondatore dal simbolo e di lasciare che a prevalere sia la comunità sui singoli. Al tempo stesso, sono post-grillini i toni, i modi e gli atteggiamenti, benché molti di loro, legittimamente, nutrano stima, affetto e gratitudine nei confronti di una persona cui devono la propria carriera politica e, probabilmente, la propria scelta di non distaccarsi del tutto da un’attività essenziale per la vita democratica di qualunque paese ma alle nostre latitudini oggettivamente screditata e, a tratti, deprimente.

Hanno imparato ad andare in tv, sono ormai ospiti fissi di parecchi talk show, compiono scelte nobili che sfidano le altre forze politiche, a cominciare dalla decisione di puntare su Carlo Freccero per quanto riguarda il CdA RAI e sul professor Franco Modugno per quanto concerne la Consulta, lavorano bene nelle commissioni e si sono garantiti il riconoscimento, pressoché unanime, di non essere affatto dei dilettanti allo sbaraglio.

Ora, però, devono guardarsi allo specchio e riflettere seriamente su cosa vogliono fare da grandi. Perché la maturità, dopo sei anni di vita, l’hanno ormai raggiunta, costituiscono una realtà strutturale del nostro sistema politico e credo che, in molti casi, ci abbiano anche preso gusto. È arrivato, dunque, il momento di fare i conti con loro stessi, con i loro pregi e difetti, con i loro limiti e con le loro effettive intenzioni: devono chiudersi in una stanza e domandarsi se vogliano governare o meno questo Paese, nel disperato tentativo di renderlo diverso e migliore da come è adesso. Se è così, devono accantonare alcune velleità delle origini, dal limite rigido dei mandati (perché non si può gettare al vento una classe dirigente dopo averla faticosamente costruita) al rifiuto di stringere alleanze a prescindere, e coniugare le virtù movimentiste e questo spirito da scapigliatura giovanile che li rende unici nell’asfittico panorama nazionale con una ferma volontà di portare davvero la voce dei cittadini nei palazzi del potere, trasformando le proteste in proposte, le buone idee in leggi e le speranze di cambiamento in un autentico programma di governo, supportato dalla cultura necessaria a realizzarlo.

Non solo: devono smetterla di definirsi la sola alternativa possibile e presentarsi come l’architrave di un’alternativa civica possibile a un regime partitocratico che ormai mostra davvero la corda, essendosi trasformato in una difesa corporativa e castale di privilegi insostenibili che ha paralizzato l’Italia condannandola all’immobilismo, fino a trasformarsi in una spartizione di posti e poltrone che oggi sta naufragando nell’osceno balletto cui stiamo assistendo a proposito della nomina dei giudici costituzionali.

A tal proposito, anche noi, a sinistra, dobbiamo guardarci negli occhi e renderci conto di alcune cose: innanzitutto, che la forza di costituire un partito unico, al momento, non ce l’abbiamo, pertanto è meglio lasciar perdere ed evitare inutili divisioni e guerre fratricide; in secondo luogo, che la stessa forma partito, per quanto io non intenda rinunciarvi del tutto, attualmente risulta insopportabile agli occhi di milioni di cittadini, i quali identificano il concetto stesso di partito con l’idea di ruberie, malversazioni e sperperi continui di denaro pubblico; infine, che l’unica, ultima possibilità che abbiamo di riscattarci dai nostri gravi e imperdonabili errori è quella di compiere un bagno di umiltà, accettare alcune delle loro regole (dal dimezzamento degli stipendi all’obbligo di candidare solo incensurati per attuare pienamente l’articolo 54 della Costituzione, fino a una significativa revisione delle modalità di finanziamento della politica) e metterci al servizio di una grande coalizione civica, sostenendoli senza chiedere in cambio un solo posto di governo o di sottogoverno, anche perché di occasioni ne abbiamo avute fin troppe e, onestamente, le abbiamo sprecate. 

Dovremo vincere entrambi i rispettivi blocchi mentali: loro la paura di sporcarsi le mani nel senso donmilaniano del termino, noi il pregiudizio insulso e gratuito che per troppo tempo abbiamo nutrito nei confronti di un universo che noi stessi abbiamo contribuito a creare, ignorando tutte le sacrosante ragioni per cui è nato. Senza contare che dovremo riuscire nell’impresa di coniugare democrazia rappresentativa e democrazia diretta: la prima, infatti, non può più esistere senza la seconda e la storia non consente di tornare indietro, a prima dell’avvento della rete e dei social network, ma al tempo stesso impone di non gettare via le esperienze positive del passato e di non cedere alle pulsioni rottamatorie tanto in voga di questi tempi, utili solo per cristallizzare lo stato delle cose e rendere ancora più deboli, più fragili e più soli coloro cui il potere vorace attualmente sulla scena ha tolto voce e rappresentanza.

Una mano, in tal senso, potrebbe arrivarci dal referendum costituzionale. In quel contesto, infatti, ci sarà poco da discutere, in quanto la scelta sarà netta: da una parte, la Costituzione dei padri della Patria, dei Pertini, dei Parri e dei Calamandrei, ossia di gente che aveva subito il carcere e rischiato la vita per contrastare la barbarie fascista; dall’altra, la Costituzione accentratrice dell’attuale classe dirigente, scritta in ostrogoto e approvata con innumerevoli e intollerabili forzature da un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale e, dunque, non legittimato ad esprimersi su questioni di quest’importanza. 

Alle prossime elezioni, avremo due schieramenti: da una parte il Partito della Nazione, il Forza Italicum che ha nella Leopolda la sua culla e a Palazzo Chigi la sua unica ragione di esistere; dall’altra, il civismo sano e costruttivo di tutti quei cittadini e di quelle forze politiche che hanno fatto della difesa dei valori e dei princìpi costituzionali la ragione stessa del proprio impegno politico.

Se il Movimento 5 Stelle avrà il coraggio di sfidare se stesso e di rendersi l’architrave imprescindibile di questa riscossa civica, l’Italia potrà avere un futuro e le nuove generazioni una speranza; in caso contrario, potranno pure guadagnare voti ma, oltre a confinarsi in un’opposizione sterile e inconcludente, si renderanno responsabili della permanenza in eterno di un gattopardismo abbarbicato al potere il cui unico scopo è difendere e perpetuare se stesso.

 

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