Verità e giustizia per chi non ne ha mai avuta

ROMA – 325 voti favorevoli, 14 contrari e un solo astenuto: sono questi i numeri che hanno portato ieri all’approvazione di una legge contro il reato di depistaggio e frode nel processo penale e civile, a prima firma del deputato del PD Paolo Bolognesi (presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna) e con l’attiva partecipazione della sinistra e del gruppo del M5S, a cominciare dalla deputata riminese Giulia Sarti, membro delle commissioni Giustizia e Anti-mafia.

Una legge che, per una volta, rende giustizia e restituisce dignità e spessore alle istituzioni, specie se si considera che fra pochi giorni saranno ricordate, come ogni anno, le stragi di via D’Amelio, in cui perse la vita Paolo Borsellino, e della stazione di Bologna, con le sue 85 vittime e i suoi oltre 200 feriti che per troppo tempo sono stati ingannati e presi in giro.
Concentriamoci sul significato profondo di questa norma, andando al di là del suo specifico valore, della sua utilità e del senso di un provvedimento che per una volta ci rende orgogliosi del nostro Parlamento, riscattandolo dallo squallore di troppe leggi-vergogna e di troppi testi scritti con i piedi e mai nell’interesse dei cittadini.
Concentriamoci sulle parole rivolte dalla Sarti a Bolognesi, un avversario politico, per giunta membro di un partito che lei, in quanto stellina, contrasta con vigore da anni, pur rivendicando origini culturali di sinistra. La ascoltavo, ieri pomeriggio, e mi rendevo conto di quanta stima ci fosse tra loro, di quanto fosse sincera e di quanto una ragazza di neanche trent’anni nutrisse ammirazione per un uomo che ha dedicato gran parte della sua vita a battersi affinché quella mattanza non restasse impunita, affinché si risalisse non solo agli esecutori materiali ma, più che mai, ai mandanti e alle ragioni che indussero a compiere un’azione tanto ributtante, nel contesto di quella fase storica segnata dalla cosiddetta “Strategia della tensione”, seguita a ruota dall’inizio della cosiddetta “guerra di mafia”, che è costata il sangue di piazza Fontana, di piazza della Loggia, del treno Italicus,  di Aldo Moro riverso nel bagagliaio della Renault 4 in via Caetani, delle già menzionate vittime di Bologna, del Rapido 904 il giorno dell’anti-vigilia di Natale del 1984 e, sia pur con una connotazione differente, di Falcone e Borsellino nei giorni della trattativa Stato-mafia che resta tuttora uno dei grandi punti oscuri della nostra storia.
Non solo: quei fiumi di sangue innocente, siano essi stati di matrice rossa o di matrice nera, di matrice mafiosa e criminale o causati dal lavoro sotterraneo e spregevole di pezzi di servizi segreti deviati, quei fiumi di vergogna in cui talvolta queste componenti tragiche si intrecciano e compongono una miscela esplosiva di indecenza hanno avuto come ulteriore conseguenza il progressivo distacco dei cittadini dalla politica, la perdita di fiducia nelle istituzioni, il disincanto, un pericoloso senso di solitudine e di alienazione collettiva e, infine, la scomparsa dei grandi soggetti storici che avevano innervato la Resistenza e redatto la Costituzione, ossia delle fondamenta stesse della nostra Repubblica democratica e anti-fascista.
Non è, dunque, retorica asserire che nel discorso della Sarti si scorgesse la sete di giustizia e verità di un’intera generazione, la quale sta faticosamente cercando di riappropriarsi della politica nel suo significato più nobile e dei beni comuni, primi fra tutti la democrazia e la Costituzione, drammaticamente svuotati di senso nel corso dell’ultimo trentennio. E non è un caso che liberismo, privatizzazioni selvagge, costanti tentativi di stravolgere la Carta costituzionale, leggi invereconde e affollamento delle aule parlamentari da parte di soggetti che non vi sarebbero mai dovuti entrare nemmeno come ospiti vadano a braccetto: questa melma fa parte della stessa cortina fumogena che è stata sollevata nel corso dei decenni intorno agli elementi che avrebbero potuto condurre all’accertamento delle responsabilità e dei mandanti delle carneficine che segnano in maniera indelebile la nostra vita pubblica, costituendo altrettante macchie per la nostra memoria e sfregiando quel vivere comune e quel pacifico stare insieme dal quale non si può prescindere se si vuole ricostruire un tessuto sociale degno di questo nome.
Allo stesso modo, non è un caso che siano stati spesso contrastati, e mai sostenuti come avrebbero meritato, i coraggiosi magistrati come Nino Di Matteo, i quali da anni si battono al fine di mettere insieme gli elementi in grado di unire i fili di un percorso indecente e comporre in maniera nitida il quadro di una vicenda dalla quale derivano i successivi vent’anni di storia politica italiana, con annessa destrutturazione del dibattito pubblico, piega plebiscitaria delle consultazioni elettorali e svolta cesarista della concezione stessa dello Stato e delle istituzioni.
Vedere ieri un uomo ormai anziano, provato da lunghi anni di lotte, dalla mancanza di ascolto, dalla rabbia, dalla disperazione e, nonostante tutto, animato da un’infinita voglia di lasciare in eredità alle nuove generazioni un Paese migliore a confronto con una ragazza che potrebbe essere sua figlia, che si è messa in gioco con tutti contro e che, insieme ai suoi colleghi di commissione, ha saputo contribuire fattivamente alla stesura di un testo di legge che aspettavamo da anni e del quale avvertivamo un assoluto bisogno, se non altro per tener fede a quei princìpi etici e a quell’articolo 54 della Costituzione che dovrebbero costituire la nostra bussola e invece sono stati troppe volte calpestati, derisi e ignorati, vedere tutto questo è stato un momento magnifico. È come se in quell’istante, infatti, si fosse squarciato un velo, fosse crollato un muro e si fosse ripartiti da dove ci eravamo lasciati nel marzo del 2013; è come se all’improvviso in molti avessero compreso l’importanza e la positività dell’ingresso di questi ragazzi all’interno delle istituzioni; è come se all’improvviso si fosse deciso di rendere un minimo di giustizia anche a loro, al loro impegno, ai loro studi, alle loro sofferenze per le troppe discriminazioni subite e si fosse scelto di gettare un ponte per il futuro.
Infine, ed è l’aspetto più importante di questa storia a lieto fine, è come se fosse avvenuto quel passaggio di testimone del quale si avvertiva da anni il bisogno, ponendo sulle spalle di una nuova generazione, fresca e in sintonia con la modernità, la sfida della legalità e del riscatto morale dell’Italia. Un primo passo, andiamoci piano con l’enfasi, ma è giusto attribuirgli comunque la centralità che merita. Sì, quest’anno, in via D’Amelio e a Bologna, guardando negli occhi i familiari delle vittime, potremo sentirci tutti un po’ meno ipocriti, un po’ meno inutili e un po’ meno falsi: e non è poco, è moltissimo.

 

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