Aria d’Europa negli anni ’30, quando il francese impreziosiva l’italiano

Una storia d’amore nella Roma plurilingue   Mia mamma era nata nel 1902 a Torino, la prima di cinque sorelle, le tote Maletto, che sarebbero tutte diventate delle brave madamin. A casa Savoia si parlava francese, ma anche in torinese. Mia mamma, che non amava il dialetto, risalì alla fonte e giovanissima andò a Parigi, per studiare in una maison debeautè (oggi beauty center) aperta da un geniale emigrante italiano.

Ne tornò con un diploma di visagiste (massaggiatrice del viso) e un’invidiabile esperienza nel campo dell’estetica femminile. Al rientro non tornò a Torino ma, come aveva fatto Mussolini pochi anni prima, scese a Roma in wagon-lit, dove trovò lavoro e insieme l’amore. 

Il lavoro era all’istituto di bellezza del Grand Hotel, dove la raffinata clientela femminile si affidava alle sapienti mani di un coiffeur di fama, di graziose manicures, di abili masseuses che facevano del maquillage una vera e propria arte. E tutte le clienti, giovani o meno giovani, ne uscivano trasformate, pronte per una soirèe importante: erano mogli di attaché d’ambasciata, la crème de la crème della noblesse europea che nella Roma degli anni Trenta avevano trovato un’accueil particolarmente charmant, o più semplicemente erano piccole o grandi femmes fatales in cerca di avventure. Almeno così confidavano a mademoiselle Louise, come mia mamma aveva trasformato l’originale Luigina scritto sul librone dell’anagrafe di Torino. 

Quanto all’amore, il soggetto in questione non aveva nulla di francese, anzi era quanto di più romano si potesse immaginare: il primo di cinque tra fratelli e sorelle, tutti dai nomi classici: lui Duilio, poi c’era Felice, Medardo, Augusta, Anna. Quello che sarebbe diventato mio padre era un bell’uomo, elegante, con un sorriso aperto, i capelli folti e bruni pettinati all’Umberto, amante del bel vestire e del buon mangiare. Fu un coup de foudre per entrambi: mademoiselle Louise s’innamorò fin dal primo incontro, che avvenne davanti al concierge del Grand Hotel dove il giovanotto romano si era recato per caso, e dove non mancò di proporre una coppa di champagne come aperitivo, data l’ora. E più tardi a cena, il maitre suggerì una specialità dello chef: escargot a la valencienne: (“lumache” aveva spiegato lei con un sorriso). Da quel giorno non si lasciarono più, anche perché per un singolare caso del destino si trovarono ben presto a fare lo stesso lavoro, la ricerca della bellezza, in due ambiti diversi: lei nel campo femminile, lui in quello delle automobili che cominciavano a diffondersi ma erano ancora appannaggio dei ricchi. Del resto donne e motori sono da allora un binomio riconosciuto. Cosi come una signora usciva trasformata dalle mani di mademoiselle Louise dopo un trattamento radicale, così un’automobile veniva curata e coccolata nella grande autorimessa che il mio futuro genitore aveva creato non lontano dal Grand Hotel. Un garage che era tutto insieme: officina meccanica, carrozzeria, stazione di servizio, con lavaggio, ingrassaggio e grafitaggio (allora si usava), uno spazio per il posteggio aperto giorno e notte, addirittura il noleggio di auto di rappresentanza con o senza chauffeur. A questo scopo c’erano ben ventiquattro autovetture di ogni tipo: berline, coupé, sportive, cabriolet, da viaggio, da far scena. E mai una volta che quelle macchine fossero rimaste in panne. Almeno così assicurava l’intraprendente, giovane titolare. 

La giovane coppia, che non esiterei a definire piuttosto chic, votata per lavoro alla bellezza sapeva come fare scena: ogni giorno una macchina diversa, una sera al teatro di prosa, un’altra alla rivista con la soubrette del momento che era la vedette incontrastata reduce, come recitava il cartellone, “da una fortunata tournée all’estero”, oppure a un vernissage, o all’Excelsior, dove “davano” il film “Gli uomini che mascalzoni” con Vittorio De Sica che cantava “Parlami d’amore Mariù”; o al cafè chantant, dove si esibiva con grande successo Milly, la cantante che si diceva avesse avuto un fugace liaison con il Principe di Piemonte, destinato a diventare con il titolo di Umberto II il “re  di maggio”, una soirèe all’Opera, in pasticceria a fare una scorpacciata di marron glacès. Sempre in automobile privata, mai preso un taxi. E quando lei trascinò lui a Torino per presentarlo ai suoi, visto che a Roma non c’era un casino, eccoli a fare una corsa a Saint Vincent. Il croupier aveva appena detto “Rien ne va plus, Faites vos jeux, Mesdames et Messieurs, Les  jeux sont  faits, la pallina aveva preso a sobbalzare sulla roulette, mentre tutt’intorno piovevano le fiches delle ultime puntate, quando la coppia felice si accorse di aver preso un en plein, lei esultò, lui rispose con un sorriso a metà: non aveva digerito le escargot.

Forse si è già capito, mentre lei teneva molto all’immagine e quindi curava con gusto il proprio abbigliamento, lui pur essendo impeccabile nel vestire, non faceva mistero di apprezzare più la buona cucina. Insieme sembravano felici. Forse lo erano. Mademoiselle Louise vestiva con gusto. Non frequentava le boutiques, tanto meno andava ai defilès: l’haute couture non faceva per lei. Chiaro che venendo da Torino si era portata dietro una naturale eleganza che non aveva bisogno di tante paillettes, ripeteva che non c’era niente di meglio di un buon tailleur con un cappellino a cloche per ben figurare. Questo non toglie che talvolta uno chemisier dai colori accattivanti, con uno chiffon fare da contrasto, o una salopette sbarazzina ottenevano un buon risultato. Quanto a lui, vestiva classico, con abbondanza di gilet. Solo una sera sfoggiò un papillon che chiaramente lo metteva in imbarazzo. Era più a suo agio a tavola: rifuggiva dai buffet imbanditi alle serate eleganti, propendeva più per i piatti tipici della cucina romana che per i soufflès, preferiva i vecchi, cari funghi porcini ai pallidi champignon, un piatto di spaghetti all’amatriciana a qualunque omelette, per non dire del paté de fois gras che lo disgustava. Il purée gli ricordava l’infanzia, decisamente non era un gourmet. Però aveva un predilezione per il tipico pane francese, la baguette, che aveva scoperto a Torino. Per finire, ai frappés preferiva il caffè, dalla colazione del mattino aveva bandito i croissant, fra lo sgomento di mademoiselle che invece sarebbe vissuta di bonbon e che così tradiva la sua infanzia nelle pasticcerie torinesi.

Andavano, comunque, molto d’accordo, si amavano e si sposarono. La prima casa in viale delle Medaglie d’oro, un bell’appartamento con parquet ovunque e, in anticipo sui tempi, con una morbida moquette in camera da letto. Per l’arredamento la sposina non avanzò molte esigenze: si batté solo per un abat-jour che si era portata da Torino. Per averla rinunciò, senza rimpianto, a un carillons che suonava “Turna a Surriento”. Avrebbe potuto cambiare la canzone, ma il bricolage non era il suo forte. E fu allora che venni al mondo, figlio unico, destinato ben presto una strada ben diversa da quella dei miei genitori, più esteti che commercianti.

Si era sul finire degli anni Trenta, gli “anni del consenso”, il fascismo aveva cominciato con la guerra alle parole straniere. Nel 1940 decine di termini francesi in uso corrente vennero abrogati, soprattutto in cucina: non si poteva più dire brioche ma briosca, il croissant era diventato cornetto, il dessert sostituito dalla dizione “fine pasto”, il carrè diventò la lombata, e anche la mansarde fu detta soffitta. E non ci si poteva più dare del lei ma un distaccato voi.

Ma questo era niente in confronto a quello che sarebbe venuto dopo. Prima mia madre perdette il suo bellissimo negozio in via Regina Elena, (non ancora via  Barberini) perché non si era iscritta al partito nazionale fascista (PNF, che i romani non allineati leggevano a bassa voce Pasqua-Natale-Ferragosto), poi i tedeschi in ritirata requisirono tutte e ventiquattro le automobili di mio padre che dovette cambiare mestiere, ne fece una malattia, morì pochissimi anni dopo. E’ sepolto al Verano, dove mezzo secolo più tardi l’ha raggiunto la fedele, discreta, paziente moglie torinese.  Che fino all’ultimo si era incaponita di perfezionare il mio francese, non perché lo parlavano a corte, ma perché nella Roma francesizzante degli anni Trenta aveva trovato la felicità. Nonostante tante amarezze e tanti dolori. E lo ripeteva spesso, c’est la vie.

 

Condividi sui social

Articoli correlati