Rileggere i russi, a cominciare dai racconti di Cechov sulla Russia del vero zar

Ci sono almeno due generazioni di lettori italiani per le quali i classici russi sono stati un punto fermo.

Fino agli anni Cinquanta, le signorine di buona famiglia, come si diceva allora, leggevano di tutto, non solo i romanzi classici ma anche Il placido Don di  Michail Solokov o Noi vivi di Ayn Rand, americana di origini russe (che vide dal suo più famoso romanzo trarre un film di successo, Addio Kira, diretto da Goffredo Alessandrini, protagonisti Alida Valli e Rossano Brazzi). I grandi russi, in quegli anni riempivano le biblioteche delle case borghesi, per esserne poi scacciati per far posto ai romanzi di Hemingway, Truman Capote, Mark Twain, Steinbeck, Faulkner. E così, in pieno “boom economico” nel cuore di tanti giovani lettori (e lettrici) i nuovi arrivati, gli americani, hanno preso il posto di autori e titoli di spicco: il Giardino dei ciliegi di Cechov,  Anna Karenina  di Tolstoj,  Le anime morte di Gogol,  Padri e figli di Turghenev,  I fratelli Karamazov  di Dostoevskji. Che andrebbero tutti ripresi in mano.

Ma, attenzione: rileggere i russi potrebbe creare qualche apprensione nel lettore in quest’Italia oggi divisa fra quelli che hanno finito per farsi bollare come “putiniani”, tanto hanno polemizzato con il governo per l’invio di armi all’Ucraina, e quelli che, all’opposto, da benpensanti ultra-conformisti, da moderni quanto improbabili maccartisti  del terzo millennio “danno la caccia” agli odierni cittadini russi, siano essi atleti da escludere da gare internazionali, musicisti da scacciare da sale da concerto, giovani da eliminare da concorsi, scrittori da  considerare indegni di un premio letterario. E’, invece, rileggendo oggi i russi che ci si può rendere conto quanto importante e irrinunciabile sia stata la tradizione letteraria del grande Paese sul quale oggi un finto zar è riuscito con una guerra assurda a convogliare l’esecrazione del mondo intero. Ma la buona letteratura rimane e la vera cultura farà giustizia di tanta ignominia.

A chi volesse riprendere in mano i russi consigliamo di cominciare con Anton Cecov e le sue godibilissime novelle. Cechov è morto a 64 anni nel 1904 a Yalta, la cittadina della Crimea che alla fine della seconda guerra mondiale sarebbe diventata famosa per l’incontro fra i tre Grandi dell’epoca: Roosevelt, Churchill e Stalin.  Scrittore prolifico come pochi, ha lasciato tra altri lavori ben 650 fra racconti e novelle dove descrive la vita quotidiana della piccola e media borghesia russa vista, con la sola eccezione di Mosca e di Pietroburgo, per lo più in piccoli centri della provincia più sperduta. (E non è improbabile che a Cechov abbia guardato Georges Simenon per scrivere le centinaia di racconti sulla provincia francese, oltre che su Maigret commissario di polizia a Parigi). 

Particolare attenzione Cechov ha sempre messo nella descrizione dell’ambiente in cui si muovono i suoi personaggi: d’inverno sotto l’infuriare di tempeste di neve, d’estate con il tormento del caldo da cui non c’è difesa, una società povera e lontana dal potere ma ostaggio di una burocrazia ottusa, dove le donne sono in genere belle ma insopportabili e non sempre fedelissime, le situazioni sociali al limite del paradosso, le case spesso fatiscenti, con la vodka che scorre a fiumi.

Tutto questo si trova nelle pagine di un’edizione uscita nel 1954 per i tipi di Bompiani di Firenze nel cinquantenario della morte dello scrittore: tre volumi rilegati in tela, con una dotta introduzione di Emilio Cecchi. Nel primo volume, di quasi duemila pagine in carta riso, in sopraccoperta una xilografia incisa da Bruno Bramanti, sono comprese racconti usciti fra il 1883 e il 1887, Molti hanno incipit deliziosi. Ecco qualche esempio fra quelle novelle di cui sono protagoniste figure femminili viste con  sottile ironia.

Incipit dei racconti di Cechov

Uno scompartimento di prima classe. Sul divano, coperto di velluto lampone, è semisdraiata una bella damina”.  (Una natura enigmatica,1883)

“La terra rassomigliava ad un inferno. Il sole pomeridiano bruciava con tanto zelo che perfino il Reaumur (termometro) appeso nel gabinetto dell’impiegato del dazio si smarrì: arrivò a 35,8 gradi 

e nell’incertezza si fermò…” (Cervelli in fermento, 1884)

“La piccola cittadina che, secondo l’espressione del custode carcerario del luogo, non troveresti sulla carta geografica neppure col telescopio, è illuminata dal sole di mezzogiorno”. (Misure adeguate, 1884) 

“Il sole si levava imbronciato sulla città capoluogo del distretto, i galli si stiravano ancora e intanto nella bettola dello zio Rylkin c’erano già dei clienti”. (La divisa del capitano, 1885)

“La cittaduzza di B., formata da due o tre vie tortuose, dorme d’un sonno di morte. Nell’aria immobile è il silenzio… Sta per giungere l’alba. Già da un pezzo tutto dorme. Non dorme soltanto la giovane moglie dell’aiuto farmacista Cernomordik che esercisce la farmacia di B”. (La farmacista, 1886).

“La bellissima Vanda o, come ella si chiamava sul passaporto, la spettabile cittadina Nastasia Kanavkina, dimessa dall’ospedale, si trovò in una situazione nella quale prima non si era mai trovata: senza ricovero e senza un copeco. Come fare?”. (Il conoscente, 1886) 

“Un bel mattino facevano i funerali dell’assessore collegiato Kiril Ivanovic Vavilonov, morto per due malanni così diffusi nella nostra patria: una moglie cattiva e l’alcoolismo”. (L’oratore, 1886) 

“Natalja Michajlovna, una giovane graziosa signora ritornata la mattina da Yalta, stava pranzando e, facendo senza posa mulinare la lingua, spiegava al marito quali sono le attrattive della Crimea”.(La lingua lunga, 1886) 

 

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