Bronzi di Riace: uno studio scientifico rafforza l’ipotesi siciliana

Un approccio multidisciplinare che unisce geologia e archeologia riapre uno dei più affascinanti misteri della storia dell’arte antica. Un nuovo studio condotto da ricercatori delle Università di Catania e Ferrara fornisce solide evidenze scientifiche a sostegno della cosiddetta ipotesi siciliana sull’origine e sulle vicende dei celebri Bronzi di Riace, le due statue greche del V secolo a.C. divenute simbolo del patrimonio culturale italiano.

In un Paese come l’Italia, caratterizzato da un territorio complesso e in continua evoluzione, la geologia è tradizionalmente associata allo studio dei rischi naturali. Tuttavia, come dimostra questa ricerca, gli strumenti e i metodi delle scienze della Terra possono rivelarsi decisivi anche per ricostruire la storia dei beni culturali, offrendo dati oggettivi, riproducibili e verificabili.

Geologia e archeologia per riscrivere la storia dei Bronzi di Riace

Il team di ricerca ha applicato metodologie tipiche della geologia, tra cui carotaggi, analisi chimiche e mineralogiche, studio di microfossili e sedimenti, integrandole con competenze di archeologia, archeologia subacquea, storia antica e scienza dei materiali. L’obiettivo era chiarire la provenienza delle terre utilizzate per la realizzazione e la saldatura delle statue e ricostruirne il contesto originario di deposizione.

I risultati avallano l’ipotesi formulata negli anni Ottanta dall’archeologo statunitense Robert Ross Holloway, secondo cui i Bronzi sarebbero affondati nel mare della Sicilia durante il trasporto di opere trafugate dai Romani dopo il sacco di Siracusa nel 212 a.C. Successivamente, le statue sarebbero state recuperate e trasferite nei fondali di Riace, in Calabria, dove vennero ritrovate nel 1972.

Questa interpretazione è stata in seguito ripresa da Margarete McCann e recentemente rilanciata da Anselmo Madeddu nel volume Il mistero dei Guerrieri di Riace: l’ipotesi siciliana (Algra editore), che ospita anche i risultati dello studio coordinato dal geologo Rosolino Cirrincione dell’Università di Catania.

Le terre di saldatura e la cava dell’Anapo

Uno degli elementi più rilevanti emersi dalla ricerca riguarda l’analisi delle terre utilizzate per la saldatura delle statue. I dati dimostrano che queste argille provengono da una cava situata nei pressi della foce del fiume Anapo, a Siracusa. Si tratta di una prova scientifica che rafforza in modo significativo il legame tra i Bronzi di Riace e l’area siracusana.

Lo studio, pubblicato sullItalian Journal of Geosciences della Società Geologica Italiana, è il risultato di un lavoro accurato che ha coinvolto 15 studiosi tra geologi, archeologi, storici, paleontologi, biologi marini ed esperti di leghe metalliche. La pubblicazione è stata sottoposta a rigorosa revisione tra pari, confermando la solidità del metodo e l’affidabilità dei risultati.

Officine di Sibari e la possibile mano di Pitagora da Reggio

La ricerca ha seguito tre principali linee di indagine. Le prime due hanno confermato la netta differenza tra le terre di saldatura e quelle di fusione. Mentre le prime risultano riconducibili all’area dell’Anapo, le seconde, ricche di granitoidi, mostrano una forte corrispondenza con i sedimenti del delta del fiume Crati, in Calabria, più che con quelli di Argo, come ipotizzato in passato.

Questi dati suggeriscono che le statue siano state realizzate in sezioni separate all’interno di un’officina di Sibari, per poi essere assemblate e collocate a Siracusa. Un’ipotesi che rafforza la possibile attribuzione a Pitagora da Reggio, scultore attivo alla corte dei Dinomenidi, già associato da recenti studi anche alla realizzazione dell’Auriga di Delfi.

La giacitura sottomarina e il ruolo della geologia forense

La terza linea di ricerca ha analizzato l’originaria giacitura sottomarina delle statue attraverso lo studio delle patine di alterazione e del biota marino presente sulle superfici bronzee. L’analisi indica che la permanenza nei bassi fondali di Riace, a circa 8 metri di profondità, sarebbe avvenuta solo pochi mesi prima del ritrovamento del 1972.

Al contrario, la presenza di serpulidi circalitorali, croste di coralligeno e patine di solfuro di rame, tipiche di ambienti profondi e scarsamente ossigenati tra i 70 e i 90 metri, suggerisce una lunga permanenza, durata oltre due millenni, in fondali molto più profondi. Queste caratteristiche risultano compatibili con la costa ionica siciliana, in particolare l’area di Brucoli, come indicato anche da recenti ipotesi pubblicate su Archeo e Archeologia Viva.

Un nuovo paradigma per la tutela dei beni culturali

Secondo Rodolfo Carosi, presidente della Società Geologica Italiana, la vera novità dello studio risiede nell’integrazione tra dati geologici e archeologici, un dialogo tra discipline che apre nuove prospettive anche nel campo della geologia forense applicata ai beni culturali. Un approccio che potrebbe rivelarsi strategico per la tutela, il tracciamento e la ricostruzione della storia di opere d’arte di eccezionale valore.

Come sottolineano Anselmo Madeddu e Rosolino Cirrincione, questo lavoro rappresenta il primo tentativo scientifico di integrare in un’unica proposta interpretativa sia i nuovi dati emersi dalla ricerca sia una revisione critica delle evidenze già disponibili, restituendo una lettura coerente e complessiva della storia dei Bronzi di Riace. Una rilettura che non mette in discussione la loro appartenenza al Museo di Reggio Calabria, ma che invita a riscriverne il passato alla luce delle più avanzate conoscenze scientifiche.

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