Calcio. Zeman, il ritorno più dolce

ROMA – La notizia, nelle due scorse settimane, aveva iniziato ad insinuarsi nelle orecchie dei molti tifosi accompagnata dall’euforia incontenibile, incredibile a dirsi quanto a definirsi, che portano con sè i piccoli, grandi sogni quando si avverano. Zdenek Zeman, cavaliere senza macchia di un calcio elegante e pulito, torna sulla panchina dell’A.S. Roma a tredici anni – fu allenatore dal ‘97 al ’99 – dal suo arrivederci.

Notizia che è ora ufficiale, con annessa presentazione a Trigoria in data odierna e dettagli sul raggiunto accordo: due anni di contratto, cosa insolita per lui abituato a rinegoziare anno per anno, con scadenza giugno 2014.

Un ritorno atteso, addirittura sognato da molti – chi scrive è appassionatamente tra questi – al termine di una stagione a dir poco da brividi, condita da numeri e risultati da annus horribilis. La nuova Roma, creatura ibrida per metà di proprietà di una banca e per metà di un gruppo – non ancora ben definito – di imprenditori americani, per opera dei suoi molti – forse troppi – dirigenti, Franco Baldini su tutti, dava avvio al suo nuovo quanto ambizioso “progetto”. E dire ambizioso era forse poco, visto che si parlò addirittura di “rivoluzione culturale”. Sorvolando sulle inquietanti reminiscenze maoiste che il concetto portava con sé, furono in pochi a capire, da subito, quanto l’istanza di mettere in atto un simile obiettivo in una città che ha avuto la sua fondazione nel 753 a.C., covasse un ché di pericolosamente presuntuoso, se non di folle addirittura. E infatto il fiasco fu clamoroso, accompagnato da fischi e sbertucciate di cui s’ode ancora il riverbero.
Complice un allenatore, Luis Enrique, forse anche preparato e dotato di carisma, ma irrimediabilmente inadeguato al calcio italiano (se non a quello professionistico: allenava in precedenza le giovanili del Barcelona) e con un suo corredo di scelte incomprensibili ed errori perennemente uguali a se stessi, la Roma, pur dotata di un organico apprezzabile, è stata artefice di un’annata risibile, che l’ha vista fallire tutti gli obiettivi stagionali con numeri e prestazioni, specie in difesa, da circo Barnum.
Ora il “programma” – tanto per dispensare tutti, noi per primi, dal nefando termine “progetto” – riparte, con un’impennata di intelligenza ad elevarsi su un mare magnum di dabbenaggini e sedicenti, quanto malriusciti, colpi di genio. “Datece Zeman”, chiosava uno striscione in curva sud la scorsa primavera, durante una delle tante infelici, inguardabili partite offerte dalla Roma ai suoi increduli quanto spazientiti tifosi. Non sappiamo, infatti, se la scelta di affidare la nuova Roma al tecnico boemo sia frutto di adeguata convinzione o, al contrario, dell’aver saputo ascoltare e cogliere, forse per la prima volta, le istanze e gli umori della piazza. Sappiamo, e ciò è notizia certa, che Zdenek Zeman fosse tutt’altro che in pole position nei desiderata dei dirigenti – contatti, e tutti ufficiali, ci sono stati con Montella, Villas-Boas e Bielsa – e che i tifosi, in un anonimo mattino dello scorso maggio ed in gran numero, si sono radunati davanti Trigoria per chiedere a voce alta il ritorno del tecnico più amato.

Amore fortemente ricambiato dallo stesso, cui la Roma è rimasta nel cuore in questi tredici anni in cui si è trovato, suo malgrado, a scendere e risalire dall’inferno, sia pur beandosi, al ritorno, di veleggiare l’Acheronte enumerando e vedendo passare, una per una, le ignobili carcasse dei suoi maggiori nemici. Quelli, per intenderci, che lo hanno giocoforza estromesso dal calcio che conta, che lo hanno insultato e vilipeso pubblicamente, che gli hanno inferto una delle più feroci forme di ostracismo mai viste nel mondo del calcio e dello sport in generale. Aveva osato, ahilui, schierarsi contri i poteri forti. Quei poteri che, da decenni, tiravano le fila del calcio con fare oscuro e malavitoso, un pò in tutte le maniere che gli erano possibili.

“Via il calcio dalle farmacie”, aveva tuonato, ed i diretti interessati gli si erano scagliato contro con una violenza ed una cattiveria incredibili a dirsi. In molti lo sbeffeggiarono in pubblico, qualcuno lo insultò addirittura, dandogli del terrorista. Seguirono processi mediatici capziosi, arbitraggi – contro la Roma – a dir poco da ufficio inchieste, insulti e calumnie in forma pubblica, ma lui non si scompose di un minimo. Fu al suo fianco Franco Sensi, amato e indimenticabile presidente – quello dell’ultimo scudetto – che col suo carattere impavido mise anima, corpo e averi contro quello stesso calcio malavitoso. Colui che, per primo, parlò di “associazione a delinquere”(!), termine più avanti assunto – era l’estate del 2006 – e sentenziato dai magistrati che indagarono su Calciopoli, cioè a dire il più grosso scandalo mai visto, a tutte le latitudini, da che l’uomo ha inventato il pallone. E tra i protagonisti principali c’erano gli stessi di cui sopra.

Il presidente Sensi, dopo il gioioso palliativo dello scudetto, passò a miglior vita dopo aver sacrificato alla causa salute e beni di famiglia; Zeman, da par suo, iniziò la sua parabola di reietto del calcio italiano, osteggiato e bersagliato in ogni maniera, costretto ad emigrare in poco fortunate parentesi. Prendere lui, per una squadra della maggior divisione, avrebbe significato, fino a pochi anni addietro – a forse ancora oggi, chissà – un posto in prima fila verso il patibolo. Seguirono anni bui, senza calcio, senza le sue passioni più grandi, negategli con inusitata cattiveria. Quindi la risalita, lenta e a fatica, passando per quel Foggia che illo tempore lo aveva messo in vetrina, poi per quel di Pescara, ed è storia quasi di oggi. Cerchiamo di salvarci, gli dissero i dirigenti al momento del suo ingaggio, e quel che viene in più è tanto di guadagnato; l’anno successivo cercheremo di allestire una squadra competitiva per sognare, pur se in serie B. Lui, per tutta risposta, porta il Pescara in serie A fra partite da applausi e goal a grappoli – uno in più del grande Torino, anch’esso, finalmente, tornato in A –; quindi la chiamata della Roma, cui risponde senza pensarci, con la dovuta prontezza che si ha per i sogni che si avverano.

Che storia, Mister, e che fatica indicibile; dunque è questo il prezzo incalcolabile, irriferibile, dell’onestà in un mondo di disonesti? Questo è quel che costa la purezza, quando è circondata da un oceano di liquami e miasmi? Forse si, ma a fronte di ciò, quanto vale lo spessore di una schiena diritta, di una coscienza immacolata? Che prezzo hanno gli sguardi ammirati dei giusti, e quelle parole, magari sussurrate e soffuse, pronunciate dagli astanti quando compari sulla scena; “Quella è una brava persona”. Quanto valgono queste parole, pur se il peso per sostenerle sembra a volte disumano?

Da domani, a Trigora, ritroverai affetti e luoghi mai dimenticati, e quel giocatore tanto amato, Francesco, per tua stessa ammissione il più forte da te allenato, ed il più forte calciatore italiano degli ultimi trent’anni e forse più. Vi ritroverete sul prato verde, con qualche anno e qualche ruga in più, e quella sola immagine, di voi che parlottate, complici e assorti, sarà da stringere il cuore.

Bentornato Mister; domani Venere – dopo alcuni anni e non prima dei prossimi cento – passerà davanti al sole: che possa portare la giusta e dovuta bellezza al tuo calcio radioso, spumeggiante e pulito. Che possa restituirti tutto ciò che, in passato, ti è stato ignobilmente sottratto. Bentornato in quella magione, gloriosa e patrizia, fatta di memorie e di affetti giallorossi, che ha sempre serbato il tuo posticino a tavola, senza mai toglierlo né offrirlo ad altri.
La storia, per i giusti, offre a volte una seconda chance, e tutti la stavamo aspettando nell’unico modo possibile: sperandoci, senza crederci quasi. Ora che è giunta, non resta che credere in ciò che ci è sempre appartenuto. Bentornato, Mister, a casa tua.

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