“Dante”, Pupi Avati racconta il suo rapporto con il Poeta. Intervista

ROMA – Domenica scorsa, a conclusione del 13° Festival Dantesco abbiamo avuto occasione di incontrare il maestro Pupi Avati, che era presente al Teatro Palladium di Roma in qualità di presidente della giuria del Festival. Gli abbiamo fatto qualche domanda sul suo film “Dante” e sul suo rapporto con il Poeta.

Lei è il Presidente della giuria del Festival Dantesco e deve giudicare le opere di ragazzi molto giovani che in alcuni casi si accostano a Dante per la prima volta. Qual è stato il suo primo approccio con il Poeta? 

Il mio primo approccio ahimè fu con la scuola – una scuola anni ‘50 che era alto-medievale e nozionistica – in cui ogni professore insegnava la materia per la quale non era predisposto. Nessuno trasmetteva l’amore per la propria materia d’insegnamento come invece – mi auguro – fanno i docenti di adesso. Oggi molti insegnanti scelgono una strada difficile solo spinti dalla passione. So quanto poco convenga a un docente insegnare quando potrebbe fare ben altro e ottenere un impiego che abbia dei ritorni economici diversi. Ma la loro voglia di condividere con gli alunni la gioia che provano nello studiare la propria materia è più forte. Quando andavo a scuola io in parecchi casi i professori ti facevano odiare la materia che insegnavano e noi studenti eravamo prontissimi a detestarla. Quindi per me Dante Alighieri è stato uno fra i tanti autori nei riguardi dei quali ho dimostrato grande insofferenza. Non vedevo l’ora di occuparmi di Louis Amstrong e di Frank Sinatra. 

Cos’è successo per farle cambiare idea e avvicinarla a Dante tanto da progettare un film sulla sua vita? 

È accaduto che arrivando a Roma e decidendo di fare il cinema mi sono dovuto confrontare con chi faceva il cinema allora – che non è chi fa il cinema adesso. Erano persone in gran parte acculturate ed era molto difficile essere all’altezza di un’interlocuzione con loro mentre citavano brani di opere che avevano letto e che io non conoscevo. E allora io a trent’anni ho deciso di fare quello che avrei dovuto fare a quattordici anni e di recuperare tutto ciò che non avevo letto da ragazzo. E così mi sono imbattuto in Dante attraverso quella che è la ‘password’ che ti apre il suo mondo: la Vita Nova, un’opera che nelle scuole degli anni ‘50 gli insegnanti non tenevano in alcuna considerazione.

Quindi per lei la Vita Nova è stata la porta d’ingresso per universo dantesco?

Si, mi ha permesso di esplorare Dante e la sua intimità. La Vita Nova è un prosimetro meraviglioso, dove il testo accompagna i più straordinari sonetti che Dante abbia mai composto. È un diario giovanile che Dante redige all’indomani della morte di Beatrice, raccontando la sua perdita con dovizia di dettagli, sia in versi che in prosa. La bellezza dei componimenti e l’acribia con la quale Dante descrive il suo amore per Beatrice sono commoventi. Neanche Roland Barthes è riuscito a descrivere l’amore in modo così profondo come riesce a fare Dante. Così mi sono innamorato di questo ragazzo e in lui mi sono riconosciuto, ho pensato che somigliasse terribilmente a me, a come ero stato ragazzo io e a come continuavo ostinatamente a voler essere un ragazzo. Ho letto e riletto tutto quello che potevo. Io sono un bibliofilo, ho investito una fortuna in tal senso. Se lei viene a casa mia vedrà una dantistica vastissima.

E tuttavia fra quelle migliaia e migliaia di volumi non ne esiste uno che ci restituisca la verità, che ci dica chi era quel ragazzo, che ce lo avvicini, che lo faccia scendere dal piedistallo troppo alto sul quale è stato messo e lo privi di quell’ aura di onniscienza che ce l’ha così tanto allontanato, che fa sì che Dante ci intimidisca. Non ci sentiamo mai all’altezza di Dante. 

Con il suo film quindi ha provato ad avvicinare Dante al pubblico. 

Ho tentato di farlo attraverso anni di ricerche condotte con la complicità di emeriti dantisti. Molti purtroppo non ci sono più. I primi sono stati Francesco Mazzoni e Ezio Raimondi, poi Marco Santagata ed Emilio Pasquini. Poi sono diventati altri, fra i quali Maurizio Fiorilla, che è uno studioso di Boccaccio. Ho avuto il loro avallo nello scrivere di Dante e questo mi ha incoraggiato. Volevo raccontare Dante cercando di renderlo meno inarrivabile e per farlo ho scelto di affidare a Boccaccio la narrazione. Devo dire che adottare il punto di vista di Boccaccio mi ha permesso di deresponsabilizzarmi, perché la responsabilità di raccontare la vita di Dante non è più mia. È andata così: ho trascorso vent’anni in attesa che mi facessero fare questo film, che avevo in mente dal 2003. Prima ho scritto il romanzo (L’alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante, Solferino, 2021 ndr) e poi sono riuscito a realizzare il film quando finalmente la Rai – dopo aver prodotto film sulla storia di tante personalità – si è decisa a produrre anche la vita di Dante.

Il Festival dantesco per i ragazzi è un modo di confrontarsi con Dante in maniera meno impersonale rispetto alla semplice conoscenza scolastica.

Sicuramente, perché dà loro l’occasione di appropriarsi di Dante. Appropriarsi di qualcosa, farla diventare propria, ingurgitarla e sublimarla dentro di sé permette di restituirla attraverso quella che è l’esperienza individuale. Certo è il modo migliore per avvicinarsi a qualcuno – che sia Dante o chiunque altro – che sennò rimarrebbe ineffabile.

Lei quindi si è appropriato di Dante.

Come dicevo, io mi sono appropriato di Dante tramite Boccaccio e sono riuscito a simulare dei momenti della sua quotidianità attraverso quelle che Marco Santagata chiamava congetture. Ad un certo punto sono diventato così tanto familiare con il Poeta da poter immaginare anche ciò che non è documentato. Magari non è successo davvero, però è dantesco, è qualcosa che potrebbe aver fatto Dante. Ci sta, insomma. Questo espediente ha causato il successo del film, che ha avuto un riscontro positivo nelle sale cinematografiche ma soprattutto con la scuola. 6.000 ragazzi sono andati a vedere il film nelle matinée. Sono molto soddisfatto di questo risultato, non era scontato che l’operazione riuscisse così bene a livello didattico. 

È al cinema il suo ultimo film “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” con Edwige Fenech e Gabriele Lavia. Le chiederei se è il film della sua vita, ma so che è una domanda inflazionata.

Me lo chiedono sempre, ma la verità è che ogni film è il film della mia vita. “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” è un film molto autobiografico. Ho 84 anni, conosco bene la vita sia nelle sue problematiche che nei suoi aspetti più consolatori e mi è piaciuto raccontarla ai più giovani. Non per prepararvi al peggio ma per mostrare come, alla mia età, si possa essere ancora sorretti da un sogno. È lo stesso sogno che ho fatto quando avevo quindici anni e la cosa bella è che non si è realizzato. 

Perché no?

Perché così posso continuare a sognarlo ed è quel che faccio. È evidente che nel momento in cui il sogno si realizza, finisce tutto. Si diventa appagati, ma non si può continuare a sognare. 

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