Sguardo curioso e sorriso bonario, una blusa e pantaloni total black alla maniera di Steve Jobs, ma con lo charme di Giorgio Armani. È così che si presenta Fabio Gimignani, l’editore o meglio dire “il capitano” di Edizioni Jolly Roger, che con la sua casa editrice traghetta nuovi talenti verso la notorietà, oltre a concepire lui stesso promettenti novità come “Ossi di seppia per coccodrilli 3”: il terzo capitolo di un’antologia di racconti “fuori dagli schemi”, che alternano dolcezza a cinismo. Alle spalle, un’esperienza autoriale ed editoriale di lungo corso: tutte caratteristiche che lo rendono un editore consapevole, che sa individuare e valorizzare il talento. Classe ’65, fiorentino, con una verve e un’ironia peculiari è disposto a raccontarsi per noi.
Quale libro che ha scritto è il suo preferito e perché?
«Chi scrive per passione non ha un libro preferito: ognuno di essi rappresenta qualcosa di speciale ed è il riferimento a un periodo particolare della vita dell’autore. È un po’ come per un album di foto, che si sfoglia soffermandosi a ricordare il momento cristallizzato nell’immagine. Se comunque dovessi assegnare un primo posto ai libri che ho scritto: questo sarebbe un ex-aequo tra “Gli artigli delle farfalle” e “La valle dei cedri”. Riguardo al primo titolo, confesso che dopo aver scritto la parola “fine”, mi sono sentito come deprivato di qualcosa, e nei giorni successivi ho capito che mi mancavano quei personaggi. “La valle dei cedri” rappresenta, invece, tutta un’altra questione declinata nel mio io più profondo».
Quale, invece, dei libri che ha edito, l’ha colpito maggiormente?
«So che può sembrare una “marchetta”, ma uno dei libri che mi ha maggiormente colpito è stato proprio “Cani soli di mezza taglia” di Saimo Tedino, che ho appena edito. Mi ha colpito sia per lo stile dell’autore, a metà strada tra il romantico e lo psicotico, sia per la bellezza della storia nella quale ognuno di noi si può riconoscere, identificando i propri desideri che vanno dal bisogno di dare e ricevere amore incondizionato, fino a quello di punirsi, rasentando l’autodistruzione. Per la prima volta da quando faccio l’Editore – e senza alcuna richiesta da parte dell’Autore – ho voluto scrivere la prefazione del libro».
Com’è oggi essere un editore?
«Talvolta, è anche inveire!…Il lavoro di editore, oggi, è distante anni-luce non solo da quello del signor Manuzio, ma anche da quello di Le Monnier. L’avvento di internet, del self- publishing e dei social – spesso fungendo da catalizzatore per una totale mancanza di autocritica sulle proprie reali capacità autoriali – conducono a una tale inflazione del panorama editoriale, rendendo il lavoro una specie di percorso a ostacoli, nel quale dover superare e schivare: i consigli dei “soliti bene informati” che sobillano l’aspirante scrittore su quali siano i suoi cosiddetti “diritti inalienabili”; la presunzione dei determinati punti vendita convinti di possedere l’unica chiave per la diffusione di un libro unita a la quasi totale mancanza di interesse da parte di un pubblico di lettori sempre più esiguo… In poche parole, oggi il lavoro di editore o si configura come mera attività economica finalizzata esclusivamente a far cassa pubblicando l’impubblicabile, o rappresenta un sogno che qualcuno rincorre alla stregua del “Bianconiglio”, ma che non lo farà mai diventare ricco, almeno economicamente. Indovinate a quale di queste due categorie appartengo?».
Preferisce il ruolo di autore o quello di editore?
«Faccio l’editore per lavoro, anche se con tutta la passione e l’amore di cui sono capace.
Scrivere, invece, rappresenta per me una finestra sulla libertà assoluta, che purtroppo riesco ad aprire molto raramente a causa dell’impegno che dedico a pubblicare i libri dei miei autori. Come editore sono Jolly Roger, o più scherzosamente, il capitano del vascello pirata che traghetta le belle lettere attraverso i sette Mari… Ma come scrittore, sono solo Fabio, con tutti i suoi sogni, la sua rabbia, le sue certezze e le sue contraddizioni: amo scrivere, e non ci rinuncerei per niente al mondo».
Il mercato editoriale, invece, in che stato versa?
«È sovraffollato di autori e carente di lettori. Realtà editoriali “mordi-e-fuggi” spuntano come funghi e alla stessa velocità scompaiono, senza però esimersi dal creare malcontento e diffidenza nei confronti di chi fa questo lavoro seriamente. I pochi che ancora si impegnano per creare e distribuire buoni prodotti editoriali, sono diventati quasi anacronistici e rischiano, facilmente, di crollare sotto il peso delle grandi catene che pubblicano e diffondono, a pioggia, testi in voga scritti da influencer e utili buoni solo per far dire al lettore: «Anch’io ce l’ho». Più che un mercato è una sorta di “casba” (cittadella ndr) dove ognuno ha il diritto di dire la sua, anche se privo di qualsiasi competenza. E nutro poche speranze sull’uscita dalla stagnazione in cui siamo precipitati: se non è bastata una pandemia per riportarci a leggere, dubito che qualcos’altro possa riuscirci».
Jolly Roger è il nome della sua casa editrice: qual è il motto ispiratore e come si riflette nel rapporto con gli aspiranti scrittori?
«“I Pirati dei Caraibi” non c’entrano e tantomeno “Capitan Harlock”! La bandiera pirata – detta il Jolly Roger – riveste un significato molto più vasto e, per certi versi filosofico. Fin dal diciassettesimo secolo, le navi pirata hanno solcato gli oceani da Maracaibo a Shanghai, popolate da equipaggi composti dalla compagine più eterogenea immaginabile per estrazione razziale, economica, religiosa, culturale ed economica: tutti sotto a un’unica bandiera abbattendo divisioni e preconcetti. La mia casa editrice persegue questa stessa visione e accoglie nel proprio equipaggio membri di ogni provenienza, purché accomunati da un unico sogno: le belle lettere».
Che libro – già noto- le piacerebbe aver scritto?
«Sicuramente, “L’amore ai tempi del colera” di Gabriel García Marquez. È un libro di cui sono perdutamente innamorato e che rileggerei altre cento volte: racchiude in sé una poesia e una crudezza al tempo stesso che non possono lasciarti indifferente. Lo so che può apparire sorprendente – visto lo stile sanguinario dei miei libri – ma questa è la parte più segreta e romantica di me che tengo gelosamente nascosta e protetta ai più».
E invece quale autore – tra quelli già famosi – le sarebbe piaciuto aver pubblicato?
«Amo Stephen King alla follia e lo ritengo uno degli autori migliori degli ultimi tempi. Penso che ogni suo libro, con buon pace dei suoi detrattori che spesso hanno letto solo l’incipit di “It”, sia un capolavoro e reputo il suo modo di condividere a dir poco mecenatistico. Vorrei che ogni aspirante scrittore si leggesse “On Writing, autobiografia di un mestiere” per due motivi: il primo è per sbirciare nella vita di un grande scrittore come King e inquadrare realmente quelle che possono essere le difficoltà che un esordiente incontra; il secondo è per apprendere da un autore che ha venduto milioni di copie i suoi metodi di lavoro, anche solo per “umiltà”».
Cambierebbe qualcosa nel suo percorso professionale fino ad oggi?
«Sì, senza dubbio. Con rammarico, cambierei la mia eccessiva disponibilità barattandola con della sana diffidenza: gli sforzi profusi per migliorare tanti manoscritti mediocri con altrettante lettere di rifiuto. Anche se questo vorrebbe dire cambiare me stesso e il mio modo di rapportarmi col prossimo ma crescendo, ho compreso che l’“io” più profondo e più vero non dovrebbe emergere nel mondo lavorativo: soprattutto quando la tua esperienza, dedizione e professionalità – profuse a titolo gratuito – vengono percepite come “dovute” secondo la triste logica del “se non costa non vale”».
Quali sono i suoi progetti futuri?
«Dedicarmi esclusivamente ai manoscritti che reputo meritevoli e dare l’anima per essi, ancor più di quanto ho fatto finora. Ma vorrei anche regalarmi quel tempo da dedicare alla scrittura che so di meritarmi, anche perché – senza falsa modestia – ritengo di scrivere gran bei libri! Al momento ho quattro romanzi fermi a poca distanza della fine e sono ancora lì a causa del tempo che ho dedicato agli altri… I progetti futuri sono fondamentalmente, citando Jep Gambardella della “Grande Bellezza”: “Non occuparmi più di cose che non mi va di fare”. A qualcuno tutto questo andrà bene, qualcun altro se la prenderà… ».
Come si definirebbe in un aggettivo?
«Sognatore” o “str…..”, ai lettori “l’ardua sentenza”».