A colloquio con Valcavi Ossoinack, una moderna Agata Christie

Valeria Valcavi Ossoinack è un’autrice italiana dalla vocazione cosmopolita, con una spiccata predilezione per il thriller psicologico, che riesce a concepire sapientemente, in modo da tenere il lettore col fiato sospeso fino all’ultima pagina.

Non è da meno “Ora posso riposare”: il suo ultimo romanzo ambientato a Parigi negli anni ’90, che racconta le vicende di Patrick Martin, un uomo come tanti, che conduce una vita appartata e solitaria, sino al giorno in cui non decide di prendere in mano la sua esistenza e dare voce al suo dolore, in modo definitivo. Approfondiamo i dettagli, direttamente con l’autrice.

 “Ora posso riposare” è davvero un giallo davvero ben strutturato. Cosa o chi l’ha ispirata?

La ringrazio. Niente in particolare: è un romanzo di fantasia sulla natura umana. E sul confine tra bene e male, che non è un muro invalicabile, ma una linea invisibile – proprio come nel caso del protagonista – che le circostanze della vita possono farti oltrepassarare.

Nel romanzo, il punto di vista dell’autore fa trapelare una certa indulgenza nei confronti dell’omicida, è così?

Patrick Martin è una persona che vive onestamente del suo lavoro e un padre amorevole, non è un criminale. Lo diventa nel momento in cui si convince che non può farne a meno, per giustizia e dolore. Forse, quella che lei ha chiamato indulgenza, nasce dalla consapevolezza, che, anche la persona più normale del mondo, un giorno potrebbe diventare come lui. Magari è un caso su un milione, ma è proprio questo il caso di Patrick Martin. 

Nel libro, il protagonista denuncia la mancanza di umanità e valori dell’alta società. È così anche adesso?

La mancanza di umanità e di valori dell’alta società è più che altro un luogo comune: si potrebbe dire la stessa cosa per ogni strato sociale, adesso molto più di prima, in un mondo dove egoismo, invidia e cattiveria spesso prevalgono sui valori positivi. Vero è, invece, che l’alta società, di solito, non si contraddistingue per empatia e solidarietà. Tranne, le rare belle eccezioni, ovviamente.

Perché ambientare il romanzo a Parigi negli anni ‘90?

È il terzo romanzo che ambiento a Parigi, dopo “L’eredità Rocheteau” e “Nessuno si farà male”: i due thriller precedenti. Ho scelto Parigi perché è una città bellissima e misteriosa, dove ogni emozione è amplificata dalla sua atmosfera: non è un mai semplice sfondo, ma diventa essa stessa protagonista. Negli anni 90’, perché tutti i miei romanzi sono ambientati prima dell’avvento degli smartphone e del web come lo conosciamo oggi, perché, di fatto, hanno schiacciato i piani temporali: tutto può essere vissuto contemporaneamente. Preferisco raccontare storie di quando la vita e la sua narrazione seguivano i loro tempi naturali.

Ha altri progetti in cantiere?

Ho scritto sei romanzi negli ultimi sei anni: ora posso riposare, come dico nel titolo. In futuro, vedremo.

C’è un autore che per lei rappresenta un modello? 

Tanti e nessuno, in particolare. Potrei citare Simenon e Vargas, ma è giusto per fare due nomi.

Qual è il romanzo tra quelli scritti finora, al quale è maggiormente legata e perché?

Gli ultimi tre, ossia la “trilogia parigina”. Perché, concependoli, ho scoperto di avere un’inclinazione che non sapevo di possedere per il thriller psicologico; è un genere che mi diverte e mi appassiona.

E Il suo maggiore pregio?

La curiosità. È grazie a quella, che ho cominciato a scrivere, volevo scoprire se ne ero capace.

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