Arene estive? Resistenza contro la scroll mind

“Sbatti il mostro in prima pagina”, torna restaurato in 4k col regista Marco Bellocchio in sala ad incontrare gli spettatori. Il film solleva ancora un interessante dibattito: la manipolazione dell’informazione da parte dei media esiste ancora nell’epoca dello scroll mind? Cinema come arte e memoria

Nel quartiere Esquilino, all’interno dei Giardini di piazza Vittorio Emanuele II (fino al 15 settembre 2024!) continua la programmazione di Notti di Cinema a Piazza Vittorio, la storica arena cinematografica all’aperto a cura di ANEC LAZIO, giunta alla XXIV edizione. Oltre alle rassegne e proiezioni dei migliori film dell’ultima stagione cinematografica, si susseguono anche eventi con ospiti d’eccezione, ed è su questi che vale la pena porre la nostra attenzione.

È forse proprio qui che il cinema abbandona per un attimo la priorità estetica e mostra la propria funzione aggregativa, didattica, critica, politica e sociale, riunendo lo spirito divisivo che serpeggia da sempre nel nostro paese in un momento di riflessione collettiva, sul presente e sulla nostra storia.

Gremita infatti l’arena per la visione di SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA del 1972: si tratta della versione restaurata in 4K dalla Cineteca di Bologna, in collaborazione con Surf Film, Kavac Film e Minerva Pictures, con la supervisione dello stesso Marco Bellocchio; i negativi scena e suono originali sono stati digitalizzati da Augustus Color e restaurati presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata.

Nella prima sequenza un torvo e giovanissimo La Russa sul palco, durante un comizio elettorale di quello stesso anno. Immagini di repertorio si mischiano a ricostruzioni immaginarie di un periodo drammatico della vita politica italiana. Simboli e sigle di partiti che oggi non esistono più campeggiano su striscioni tesi tra i palazzi di Milano. Un dibattito politico scomparso oggi, se non nella classe dirigente che lo rappresenta (La Russa stesso è oggi presidente del Senato) sicuramente nella sua base elettorale. Trasformata, liquefatta, rarefatta ai minimi storici per partecipazione al voto.

Oggi questo film, il cui titolo è divenuto poi di uso comune, torna attuale per due temi essenziali: la strumentalizzazione dell’informazione ai fini del consenso e il conseguente uso strumentale di qualcosa che informazione NON è: le fake news.

Il giornalista Marco Gisotti (Ecovisioni, L’ecologia al cinema dai fratelli Lumière alla Marvel – in 100 film e 5 percorsi didattici, Edizioni Ambiente 2022) ha chiesto in sala quanti dei presenti l’avessero già visto e con sorpresa ha potuto contare le poche mani alzate. Questo deve aver sconvolto un po’ la scaletta delle domande perché certamente non erano più permesse le incursioni dirette nel vivo del film se non al prezzo di inimicarsi il pubblico anti-spoiler.

Il prezioso intervento del regista.

Sembrava di aprire il sipario su un “dietro le quinte” degno della migliore letteratura cinematografica. Un teleobiettivo ravvicina episodi accaduti oltre cinquant’anni fa, dalla viva voce di un maestro del cinema, capace di fondere genesi del film con la storia politica del nostro paese. Il dialogo tra gli sceneggiatori, la partecipazione attiva degli attori al dibattito (primo fra tutti lo stesso Gian Maria Volonté), i primi episodi di guerriglia urbana, oppure la citazione di eventi traumatici come la strage di Piazza Fontana, la morte dell’anarchico Pinelli, o quella dell’editore Giangiacomo Feltrinelli (di cui vediamo immagini reali del funerale pubblico).

D’un tratto si accende la curiosità per nomi, fatti, date, che grazie all’intervento del regista possono trovare una loro coerenza, e grazie alla nostra attenzione critica, una chiave di lettura.

I Lumiere combattono ancora contro la scroll mind.

Crediamo fermamente che a questo servano gli incontri con gli autori alle arene estive: rinsaldare un patto antico col cinema, che non è solo intrattenimento (Meliés), ma anche impegno e riflessione sulla realtà (Lumiére). Una forma d’arte che si fa viva nelle coscienze soprattutto quando affronta argomenti forti, controversi, risvegliando coscienze addomesticate, oggi più che mai, all’abitudine del “pensiero scroll”.

Immaginiamo la scroll mind come un pensiero che aderisce alle dinamiche del montaggio scial: rapidità di fruizione delle informazioni, assemblaggio secondo il volere dell’algoritmo, superficialità dei contenuti. Le immagini scrollano rapide grazie allo scivolamento del polpastrello sullo schermo. I nostri occhi bulimici ingurgitano immagini e suoni: maggiore è il tempo che ci dedichiamo a questa attività, minore è la capacità di assimilarne e distinguerne i contenuti. Lo scroll mind si nutre di qualunquismo, appiattimento emotivo, azzeramento dello spirito critico. Si qualifica insomma, italianizzando l’inglesismo, per “scrollarsi” di dosso qualunque impegno.

Bellocchio ha raccontato di come il film si sia evoluto, dalla sceneggiatura e dalla idea iniziale di Sergio Donati attraverso il contributo di Goffredo Fofi e il suo proprio, il cui ruolo di regista si delineò in corsa, per commissione, a causa dell’abbandono del film da parte dello stesso Donati.

L’intenzione fu subito quella di “personalizzare” il film, afferma Bellocchio: “trasformare il film da un giallo sul mondo del giornalismo milanese in un film di taglio politico. Mi trascinai appresso Fofi e con lui riscrivemmo velocissimamente la sceneggiatura […]: vennero aggiunti nuovi ruoli, tra cui quello fondamentale di Laura Betti, e la storia diventò completamente diversa”.

La storia di Rita Zigai (il personaggio interpretato dalla Betti), apprendiamo da Bellocchio, si lasciò ispirare da un fatto di cronaca simile realmente accaduto in quegli stessi mesi.

Molto interessante la breve analisi che fa dei due modelli attoriali Volonté-Betti durante la lavorazione del film: il primo di impianto americano, studio del personaggio, immedesimazione, personificazione nell’altro da sé, distanza dal personaggio. Quello della Betti legato all’impulso dell’espressione attoriale, personalizzazione, trasformare il personaggio in ciò che l’attore è, nella sua indole.

Memorabile poi il ricordo di Gian Maria Volonté che segnalò il film a Gian Carlo Pajetta. Un attore esplicitamente schierato a sinistra che ne chiede una riflessione ad un amico non qualsiasi. E così la mente degli spettatori corre a Pajetta, a quella dimensione della militanza politica che era ancora storia viva sulla pelle: espulsione dalle scuole del Regno per adesione al Partito Comunista, militanza, esilio, prigionia e poi la direzione del partito fino a ricoprire importanti cariche di Stato. Un’altra epoca. Commistione non solo nefasta, come rappresentata in SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA, tra il mondo degli intellettuali, gli artisti, la stampa e la politica.

Il film non piacque a Pajetta che ne vide una rappresentazione del movimento studentesco troppo colluso col potere; il film non piacque né a destra né a sinistra, scontentando tutti. L’immagine del quarto potere che dovrebbe consistere nei mezzi di comunicazione di massa come strumento della vita democratica viene indagato cinematograficamente dalla scelta manipolatoria di una parola piuttosto che un’altra, fin nell’intimità delle macchine a stampa. Il giornale che scorre nella stamperia con i caratteri mobili, appare oggi obsoleto solo nei mezzi (da materiali a immateriali) ma estendibile altresì ad una quantità indistinta di strumenti capaci di manipolare. La differenza più grande è forse che il Potere non sembra più identificabile ingenuamente in un ricco industriale seduto in poltrona, ma nel potere forte, indistinto e (apparentemente) impersonale, dell’algoritmo.

L’attualità del messaggio, l’ambiguità della forma.

Lascia con il sorriso sulle labbra la semplicità di un racconto che si toglie il lusso di mettere ogni pedina al suo posto, senza perdersi in fronzoli narrativi, senza dissimulare, senza alludere, tanto che lo stesso Marco Bellocchio si accusa di una eccessiva semplificazione. Ognuno al suo posto, parafrasando una battuta della la scena in cui Bizanti, il Redattore Capo del Giornale, suggerisce come comportarsi al giovane (e ingenuo) giornalista Roveda. E se è evidente il ricorso ad alcuni stereotipi, il film rischia di farsi portatore inconsapevole della stessa deriva manipolatoria che denuncia: fa intendere cioé allo spettatore che tutta la stampa sia schiava del padrone che la finanza. La pensiamo davvero così?

Bizzarro che due anni dopo il film, nel 1974, Indro Montanelli fondi davvero una testata e la chiami il Giornale (dalla fondazione sino al 1983 il Giornale nuovo) tra i principali quotidiani italiani di centro-destra, area alla quale appartiene tuttora.

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