ROMA – Boris era il titolo della serie televisiva irriverente e satirica prodotta da Wilder per Fox Italia, e trasmessa dal 2007 dal canale satellitare Fox e dal 2009 anche da Cielo, diventando un programma di culto in breve tempo.
Boris era anche il nome del pesciolino rosso porta fortuna che accompagnava le disavventure dei protagonisti in ogni puntata. Boris è ora un film scritto e diretto dagli stessi autori Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, approdato in questi giorni in tutte le sale italiane, che ripropone gli stessi schemi irriverenti e la stessa presa in giro di un mondo dello spettacolo sempre più in caduta libera verso la volgarità e il mal costume. Come sempre si parte dalla fiction sul piccolo schermo dove, dinnanzi alla scena in cui un giovane Papa Ratzinger corre felice ed entusiasta su un prato fiorito per aver saputo della scoperta del vaccino antipolio, anche il navigato e disincantato regista di serie B Renè Ferretti, intepretato dall’ottimo Francesco Pannofino non ce la fa più e molla set e produzione.
E’ l’incipit per una storia esilarante, grottesca e ironica in cui Renè si getta anima e corpo con l’obiettivo di realizzare un film impegnato, alla Matteo Garrone, tratto dal libro scandalo “La casta”, il bestseller di Stella e Rizzo, riscattando la sua carriera e cercando di proporre un modello cinematografico diverso rispetto alla moda dei cine-panettoni e delle soap opera. Ma, come si sa, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e per Renè il mare è rappresentato dalle imposizioni e la cecità della produzione che non comprende il suo progetto, dallo snobbismo intellettuale degli autori impegnati che gli mettono continuamente i bastoni tra le ruote, dalle paranoie e i difetti di attori sopravvalutati dalla critica sempre più auto-referenziale. E così un film serio e impegnato come “La casta”, in un paese che purtroppo non vuole uscire dalla commedia nazional-popolare, diventa un cine-panettone ancora peggiore di quelli che lo hanno preceduto, dal titolo emblematico “Natale con La casta” con tutto il corollario di sesso, tette al vento (perché le tette sono la nostra utopia, come viene detto saggiamente nel film) e scorregge dispensate ad un pubblico che si sganascia dalle risate e ne decreta il successo.
In “Boris, Il film” ritorna tutta la sgangherata troupe protagonista della serie che ne ha decretato il successo con qualche nuova new entry. C’è Rosanna Gentili, nei panni dell’attrice drammatica Marilita Loy, che recita sussurrando, quasi una presa in giro dei tic e delle manie di Margherita Buy; c’è Nicola Piovani, in persona, che si gioca l’Oscar a poker e lo perde; ci sono i funzionari Rai che non hanno nessuna volontà di sostenere il cinema di qualità, ma sono ben disposti riguardo alle fiction strappa-lacrime e per l’appunto i cine-panettoni che fanno incasso. Nella pellicola ritroviamo quindi gli stessi personaggi della fiction quali il cinico capostruttura Lopez intepretato da Antonio Catania, il comico Massimiliano Bruno, il direttore della fotografia Ninni Bruschetta con il suo fedele aiuto e capo elettricista Biascica; lo stagista schiavo e mal pagato Carlo De Ruggieri, l’attore che vuole per forza recitare la figura del presidente della camera Gianfranco Fini, ossia Pietro Sermonti e l’attrice detta ‘la cagna’ o “la zoccola” Carolina Crescentini e l’aiuto regista la bravissima Caterina Guzzanti,. “Boris, il film” riesce a darci il senso di cosa significa fare un film in Italia dove tutto funziona tramite conoscenze, raccomandazioni, pressioni economiche e mantiene lo stesso tema della serie tv: la satira sul lavoro di un set per raccontare l’Italia di oggi, cialtrona, truffaldina, borghesuccia e sempre più morbosamente legata a desideri e sogni erotici da basso ventre ormai nemmeno più tanto nascosti. In tal senso, fa scuola una scena ripresa dal film in cui abbiamo un bel primo piano di un culo femminile che si abbassa, lasciando partire una scorreggia liberatoria e applaudita dal pubblico pagante. Che sia il simbolo del nuovo che avanza?
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