Teatro Argentina. Don Giovanni di Valerio Binasco e la scala verso il cielo

ROMA – Può accadere che un Don Giovanni rozzo e dalla corporatura violentemente esuberante, in anfibi e giacca di pelle, scaraventi prepotentemente sulla scena tutto il male delle nostre esistenze, senza tralasciare l’impianto farsesco della commedia molieriana in grado ancora oggi di volgere al riso nei momenti più improbabili.

È quanto avviene al Don Giovanni che la regia di Valerio Binasco porta in scena fino al 20 gennaio al Teatro Argentina, fedele al testo e aperto al contemporaneo nei costumi e nelle scenografie. Così ci si sorprende quando, a luci spente, il sipario resta un velo sottile come foglio sul quale la luce scrive le parole del prologo originale del Don Giovanni di Tirso de Molina sulle note inaspettate e, quanto mai azzeccate, di Stairway to heaven dei Led Zeppelin. Perché sia chiaro da subito che il Don Giovanni interpretato da Gianluca Gobbi esprime il suo fascino volutamente attraverso le parole e come tutto il gioco della seduzione si svolga non tanto attraverso gesti o movenze che spesso appaiono farseschi, quanto nell’uso spregiudicato e ingannevole della parola: così nel prologo ciò che appare un dialogo alla Romeo e Giuletta si trasforma invece in uno stupro.

Questo è Don Giovanni: un violento, ingannatore, pederasta, omicida; sprezzante e blasfemo nella sua continua sfida a Dio. Così ce lo presenta il servo fedele Sganarello – interpretato da un tormentato Sergio Romano – sin dalla prima scena che si apre su un interno sporco e logoro, decadente e vile come l’anima del personaggio che la abita. E qui il teatro fa ciò che resta impossibile al cinema, alla musica: nel gioco tra messinscena e realtà, si sente alle narici quel tanfo di vecchio e marciume, come se stessimo sbirciando realmente nella casa abbandonata dell’anima più irriverente e irrisolta che il teatro abbia mai partorito, in un gioco di specchi e rimandi intertestuali citando i Led Zeppelin, ma anche De Andrè.

Il libertino Don Giovanni, scalpitante nella sua ricerca di libertà in una società bigotta e austera appare qui nella sua povertà di essere umano capriccioso e instabile, totalmente noncurante del dolore che provoca, in molte cose simile alle incongruenze che caratterizzano la nostra società. L’unica voce di coscienza esasperata resta quella del servo Sganarello che invoca fino all’ultimo l’umanità sepolta del suo padrone. Di fronte alle menzogne dopo aver sedotto e abbandonato Donna Elvira (Giovanna Faggiano) e averla allontanata dal convento nel quale aveva preso i voti, di fronte alla superficialità con cui il suo padrone decide di commettere omicidi, di fronte alle brutali bugie raccontate al padre anziano e disperato, Sganarello tenta con ogni forza rimastagli di distogliere Don Giovanni dal male. Fino alla risoluzione finale animata dallo spettro del Commendatore ucciso a suo tempo per mano del protagonista, giunto per fare giustizia e trascinare con sé nell’aldilà l’impunito Don Giovanni.

La critica feroce alla religione, alleggerita dei fronzoli seicenteschi, appare chiaramente nella sua realtà di critica alla superstizione e alla religiosità naturale, laddove la divinità viene usata a spiegazione di tutto, anche dei sentimenti di odio e di vendetta. E la farsa si gioca proprio sul contrasto tra le parole – che siano d’amore o di fede – e ciò che invece appare. Questo è l’uomo di Molière: un impasto di contraddizioni, il contrasto netto tra l’abito e l’interno della casa disadorna. Nel buio della scena, la luce non può illuminare ciò che viene nascosto, ma scopre spettri e le risate sprezzanti del protagonista: è una luce che ferisce e uccide la sua ingordigia traboccante e la superbia. E su tutto veglia imperterrita una luna enorme, occhiuta e disinteressata, e una madonnina in penombra, solo accennata, ma sempre vigile, immagini di ciò che di più distaccato possa esserci in questa commedia – la Natura e Dio – ma, al tempo stesso, garanzia di bellezza che solo Sganarello sa vedere.

Il Don Giovanni di Gianluca Gobbi non lascia spazio alle simpatie: il suo corpo presente e violento anche nei gesti goliardici, la voce calda e riconoscibile che diventa aspra rivelando l’inganno. Non c’è redenzione per questo eroe tormentato che si condanna da solo al disprezzo e al disamore di tutti, anche del servo fedele che, sul corpo esanime del padrone, grida e chiede la sua paga. Il piccolo e vile Sganarello di Sergio Romano, dalle movenze a volte fantozziane, che trasporta in scena la pochezza di una vita di compromessi e paure, la lotta continua tra ciò che ci conviene e ciò che ci disgusta senza risultare mai disprezzabile, forse l’unico giustificabile, che ci aiuta a ridere e a sorridere laddove Molière voleva mostrarci in fallo. Perché quando ci si imbatte poi nella vita reale in personaggi alla Don Giovanni, senz’anima e senza Dio, può capitare inevitabilmente di riconoscersi in ogni maledizione gridata sulla scena tra lacrime e sangue, in ogni gesto sconnesso di ribellione di Sganarello, in ogni singolo atto di sdegno e disperazione.

Il teatro può e deve essere ancora fedele alla sua vocazione primitiva: la catarsi, la purificazione di tutto il dolore e di tutto il male, la combustione finale di tutte le contese, fino a sentire il lieve temporaneo sollievo nel vedere chiudersi definitivamente il sipario sui Don Giovanni della nostra vita.

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