Libri. Davide Rondoni: la ferita e la letizia in San Francesco d’Assisi


“È possibile una vita lieta?”. La domanda che apre il nuovo libro del poeta e scrittore Davide Rondoni, edito da Fazi Editore, “La ferita, la letizia”, è la spinta di ricerca che muove l’autore all’interno di un dialogo intimo con una delle figure più carismatiche, enigmatiche e sfuggenti della nostra storia, San Francesco d’Assisi.

E se gli 800 anni dalla morte del santo – che saranno celebrati durante il 2026 – hanno portato a un florilegio di pubblicazioni sulla sua figura, colpisce come, in una narrazione dalla delicatezza e schiettezza poetica, Rondoni riesca a svincolarsi dall’esigenza di raccontare la propria idea di Francesco per lasciare spazio, per fare in modo che egli si faccia spazio, all’interno dell’anima del poeta e dell’uomo col suo carico di domande e di contraddizioni.

È solo nell’ambito della parola, quindi, tra le pagine di un secolo piegato dalle guerre e dall’individualismo estremo, che Francesco può farsi strada per illuminare la sua, quella via che lo ha portato a essere piccolo per divenire tutto: “per dire di te, Francesco, occorre aprire il ventaglio dell’anima e della lingua, del respiro. Aprire lo sguardo a tutto il mondo. Per incontrarti occorre avere o aprire un grande ventaglio nel petto, il sentimento del mondo, dell’universo. Occorre la coscienza di essere parte di un Tutto”.

Il poeta, riecheggiando Dante e i versi di Mario Luzi, va incontro al santo e lo investe di domande: “è possibile una vita lieta?”. Quella letizia che trova la sua origine linguistica nella fertilità del terreno, che in Francesco è lo spendersi paziente, è la traccia disegnata sul corpo e nell’anima dalla ferita: “con la tua letizia, Francesco, hai traversato anni terribili, fatiche personali e tormenti. Foreste buie, notti stellate, gelide. Malattie, pericoli. Intrighi. Tradimenti, oscurità dell’anima. Poi ti sei steso a terra prima di morire, e hai cantato”. Canto e letizia; di fronte alle tenebre delle relazioni e del mondo: questo ci consegna il “piccolo” Francesco.

In un dialogo che ha l’ossessione monologante della ricerca, il santo appare muto eppure parla, domanda, incalza lo scrittore con la limpidezza della sua vita stessa; si sporge da essa, con prepotenza, il mistero di una vocazione che oggi scandalizza perché colpevolmente fuori dal sé, tutta spesa in un Amore che non conosce più il limite personale dell’Io: “qualcosa ci scandalizza. Più della tua grandezza, a ben pensarci, ci turba il fatto che hai risposto. Che c’è un Tu protagonista vero di tutta la vicenda. E che tu, piccolino, sei divorato d’amore e timore e fino alla fine alzi la lode per Lui. […] Quel Cristo che continua a scandalizzare con il suo evento. Era per lui che il tuo «cuore si struggeva»”.

Infine la voce di Francesco si alza, tra i versi del suo “Cantico”, prima poesia in volgare, studiata tra i banchi di scuola, manifesto di gratitudine – e appartenenza – della creatura per il suo Creatore. E Rondoni ci avverte: “i grandi testi di poesia non danno voce solo a chi li compone ma anche a chi li vive in una disseminazione di esperienze che possono comunicarsi pienamente solo con quelle parole”. Così Francesco diventa forma e parola di tutti quei corpi, quelle ferite d’amore disseminate nel mondo; di tutti quei canti modulati dalle labbra di chi porta su di sé le stimmate dell’esistenza: “un canto di lode sulle labbra di un uomo che avrebbe avuto mille motivi per alzare un lamento”.

La ferita, la letizia sono le due anime dello stesso uomo, il solco di dolore da cui nasce la lode incomprensibile: accade, più spesso di quanto pensiamo, tra coloro che di Francesco portano su di sé il segno, suo e del Cristo di cui era voce e presenza. Accade e, nel silenzio del mondo, si modula un cantico unico di incomprensibile bellezza: “quanto hai pianto per questa notizia, Francesco. Per l’indicibile. E la letizia è una conseguenza della commozione profonda. Nessuna altra notizia (…) eguaglia la letizia data dalla commozione per Cristo presente”.

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