La metamorfosi. Al teatro Argentina la messa in scena dell’opera kafkiana sulla lotta interiore tra il sé e il mondo

Dopo “Descrizione di una battaglia”, “America”, “Il Processo” e “Il Castello”, il regista Giorgio Barberio Corsetti si mette ancora alla prova con l’ermetismo e intimismo di Franz Kafka scegliendo un testo che lo stesso autore considerava irrappresentabile: “La metamorfosi”.

Per la seconda volta al Teatro Argentina di Roma (la prima è stata lo scorso maggio), l’opera, che vede protagonista Michelangelo Dalisi nel ruolo principale di Gregor e un cast formato da Roberto Rustioni, Sara Putignano, Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei e Dario Caccuri, sarà rappresentata fino al prossimo 27 febbraio.

Un allestimento semplice basato sulla ripartizione dello spazio camera/salotto all’interno della casa oramai prigione del personaggio metamorfizzato: un attento studio di prossemiche compiuto da Barberio Corsetti ci mette di fronte le diverse chiavi di lettura in cui la distanza spaziale si inserisce nei cambiamenti psico-socio-familiari di Gregor divenuto improvvisamente, una mattina, uno scarafaggio. Le sembianze del protagonista, che potevano essere espresse da un costume a corazza o effetti scenici particolari, sono invece volutamente evocate da rattrappimenti muscolari fisici e stonature timbriche vocali: ciò che conta è l’autonarrazione che gradualmente, contaminandosi con la percezione del sé e dell’alienazione che l’altro in sé propone, si pone su una scala di differenti registri cognitivi.

Di fronte cioè, all’incontro con madre, padre, sorella e procuratore la forza di volontà nel persuadere che pur trattasi dello stesso integerrimo figlio, fratello e lavoratore che si è sempre stimato (e da cui la stessa famiglia, mantenuta, ha tratto il suo stato di benessere) si indebolisce in un percorso a senso unico che porta verso lo sfinimento, l’annullamento, il desiderio di oblio. Solo da una finestra della camera Gregor può percepire la libertà di uno spazio siderale in cui ricominciare perché dentro la stanza spoglia – e che intenzionalmente viene ulteriormente spogliata delle poche necessarie “cose” a cui il nostro è legato (la scrivania, l’armadio, il canapé…) – c’è spazio per far entrare solo la morte, quella che bussa con l’incomprensione dei propri cari, con il disprezzo di un’apparenza lontana dalla sostanza, con l’odio e la violenza di uno stesso genitore che colpisce il figlio a melate fino a provocarne la ferita finale, reo di un “peccato originale” che però non ha cercato.

L’azzeramento del “colpevole” riporta l’equilibrio in una società, quella della famiglia umana (e in diretta proporzione anche alla classe produttiva del lavoro) che si ricompone in un nuovo “mondo” distruggendone un altro, “immondo”. Non è un caso che le due scritte appartengano alle pareti scenografiche del “fuori” e “dentro” e si carichino di significati nelle parole e nei gesti dei personaggi: un’illusione del ritorno alla normalità da una parte e una deflagrazione interiore che fa i conti con il rigore di una società di ruoli e funzioni dall’altra. Protagonista di questa messa in scena, quale oggetto kafkiano assoluto, è il letto della stanza di Gregor, dal quale lo scarafaggio prova ad allontanarsi arrampicandosi alla parete nella sua ricerca di libertà e naturalezza, sotto il quale il mostro ha vergogna di essere anche solo sbirciato.

Un luogo intimo dove nascondersi per ritrovare il proprio io e dialogare con i propri pensieri: questo è il letto-rifugio che, una volta abbandonato anche solo temporaneamente per cercare una conversazione risolutrice, conduce alla distruzione dell’individuo animalesco. Ma anche il letto come tana da cui proteggersi dal nemico esterno in agguato o interno della mente, è un simbolo di pericolo che identifica l’isolamento dell’essere umano nella sua condizione di monade che deve fare i conti con le pretese di una società né elastica di vedute né affettiva. I chiaroscuri creati dalle luci di Marco Giusti, i costumi essenziali di Francesco Esposito , le musiche e la direzione vocale del “coro” ad inizio e fine spettacolo – un commento umano cantato che ben si addice alla tragedia interiore espressa nel testo –  accompagnano una scenografia scarna e necessaria, composta da una base triangolare mobile che divide la doppia sezione visiva in differenti angolature, nella quale la coloratura di un quadro vivente rappresenta forse l’unico cenno di speranza per un condannato a morte.

Lo spettacolo, che fila via liscio in un atto unico di un’ora e venticinque minuti, è stato particolarmente apprezzato in sala dai liceali, silenziosi e assorti in un universo di emozioni kafkiane.

Elisabetta Castiglioni

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