VENEZIA – Gli appassionati di cinema, quelli che non si perdono un telegiornale con le cronache dalla Mostra di Venezia, ritrovano ogni anno la stessa scenografia, come se gli ultimi vent’anni non fossero passati per il Lido.
La rassegna cinematografica più prestigiosa al mondo, espressione della Biennale, (e come quella di musica, di arti figurative e di teatro si chiama Mostra d’Arte Cinematografica e non festival come si ostinano a dire i cronisti più corrivi) ha un palcoscenico naturale che non è più di cinquecento metri. Parte dal Grand Hotel Excelsior, un elegantissimo albergo moresco che quest’anno trionfa anche nei vecchi filmati di Cinecittà luce, e arriva al Palazzo del Cinema. In mezzo ci sono i portici con un ristorante da prenotazione obbligatoria, il tabaccaio, un bar all’angolo affollato come la metropolitana in ora di punta, una rotonda sul mare luogo deputato di party, brunch, press conference, interviste, meetings e quant’altro una mostra del cinema comporta. Lì, ai cocktail generosamente offerti dalla Biennale alla stampa, i giornalisti non sono mancati, anche nei giorni piovosi del 2014.
Su quei cinquecento metri puoi incontrare tutti: i fans in servizio permanente effettivo che si assiepano dietro le transenne lungo il red carpet; incontri i divi appena saliti o scesi dalla passerella, i fotografi, i soliti noti che non mancano Venezia neanche fosse l’ultima occasione di apparire, e i giornalisti sempre di corsa. Anni fa, una non più giovanissima inviata della testata televisiva nazionale pubblica , in una parola il TG 2, stanca di correre fra una proiezione e un’intervista sfoggiava una bicicletta rosa con tanto di cestino sul manubrio per gli effetti personali e pedalando vigorosamente arrivava sempre prima degli altri. Almeno così si deduceva dai suoi squillanti servizi.
Una vita d’inferno quella del giornalista alla mostra di Venezia. Per vedere i film, alzatacce ad ore antelucane (le prime proiezioni sono alle otto e mezzo del mattino, l’ultima poco prima dell’una di notte). Code interminabili agli ingressi delle sale (la più difficile da penetrare ha un nome gentile, Sala Perla: dovrebbe chiamarsi Sala Ostrica, tanto è ostica per chi provi ad entrare in tempo per la proiezione). Pasti approssimativi fra un impegno e l’altro, con panini pagati comunque a peso d’oro, anche se la crisi un po’ ha mitigano le pretese degli osti, o cene seduti ai tavoli di ristoranti che in venti giorni guadagnano quanto in tutto il resto dell’anno. Per dormire, a meno che non si disponga di una testata tanto importante che abbia prenotato e soprattutto pagato somme esorbitanti per una camera ad un letto, è più facile per l’inviato speciale a Kabul, con la sola eccezione che a Venezia non si spara (ancora) e non rapiscono giornalisti (ancora).
Eppure per andare alla mostra di Venezia c’è chi fa carte false: ogni anno all’ufficio stampa arrivano migliaia di richieste di accredito, con le motivazioni e le testate più strane. Studenti del Dams “devo finire la tesi di laurea”, giovani sfaccendati della Venezia bene per i quali andare al Lido è un punto d’onore, aspiranti critici supportati da testate cinematografiche online di dubbia e oscura provenienza. Tutti costoro entrano, o tentano di entrare alle proiezioni puntando sulla roulette dell’accredito. E’ un cartellino di vario colore che come una onorificenza si porta appeso al collo, è il salvavita del giornalista. Il colore distingue fra le categorie e stabilisce precedenze insormontabili: la stampa quotidiana da una parte, quella periodica da un’altra, i saggisti di qua, i critici di là, le celebritès mezz’ora prima, il pubblico pagante un’ora dopo. Nella valle di Giosafatte, dove l’umanità il giorno del giudizio universale sarà riunita al gran completo, per fare un po’ di ordine dovranno prendere a modello l’ufficio accrediti della mostra di Venezia.
Forse non basteranno i colori dell’arcobaleno, ma sicuramente le cose andranno meglio che al Lido, dove può capitare (ed è capitato) che non riesci ad entrare in sala nemmeno se sei il direttore della Mostra. Per anni, hanno ricoperto l’ambito ruolo, uno dopo l’altro, i due critici titolari dei due maggiori quotidiani romani. E come giornalisti avevano il passi, Quando sono diventati direttori della Mostra, non avevano l’accredito per direttori e le maschere agli ingressi li hanno più volte fermati. Quando direttore era Gillo Pontecorvo, il regista della Battaglia di Algeri, una sera si dovette sbracciare per entrare, non solo lui, ma anche poveri diavoli tagliati fuori dalla coda, che pure avevano le carte in regole.
Perché tanto accanimento presenzialista? Ma vuoi mettere il gusto di trovarti faccia a faccia con Catherine Deneuve? Con Al Pacino? George Clooney? O con Carlo Verdone, oggi in giuria, il cui padre, noto studioso di cinema, diceva che i film preferiva vederli nella sala sotto casa, piuttosto che sgomitare a Venezia? Per molti la vita è avara di soddisfazioni, e per alcuni un accredito alla mostra del Lido ripaga di tutto.
Almeno così si deduce dallo struscio ininterrotto dalla mattina a notte inoltrata su quei cinquecento metri di Laguna che nessun Mose potrà mai arrestare.