Libri. Storie vere di cani veri. Pierina e Ciccio, madre e figlio insieme per sempre

Si chiamava Pierina perché la padrona, appassionata di equitazione, le aveva trovato una certa rassomiglianza con Piero D’Inzeo, il cavaliere campione olimpico che aveva sì un viso lungo (in verità più da cavallo che da cane), ma francamente non altri tratti somatici in comune con Pierina.

La quale in realtà era una specie di cane-lupo di taglia grande, dal pelo raso maculato tanto da farla sembrare una iena (e, infatti, così veniva chiamata affettuosamente: “ la iena”). 

In giardino era comparsa un giorno spinta dalla fame. Una ciotola fumante fu divorata in pochi secondi, poi di nuovo la fuga. Pierina, come sarebbe stata chiamata da quel momento, era paurosissima, si negava a ogni tentativo di avvicinarla, evidentemente la lunga esperienza da randagia l’aveva segnata. Non ha mai voluto entrare in casa, a differenza degli altri cani della famiglia, il suo habitat abituale era il giardino, dove una folta siepe di alloro la nascondeva di giorno, la riparava dal sole e dove dormiva di notte come un animale selvatico. Era però anche un cane che non aspettava altro che di socializzare, di farsi fare qualche coccola, di giocare con quegli uomini che a differenza di altri la trattavano bene. 

C’è voluto del tempo, giorni, settimane e mesi durante i quali Pierina tentava di liberarsi dal panico che le incuteva l’essere umano, per quanto affettuoso si dimostrasse. Un po’ alla volta ci riuscì: non entrò mai in casa, sarebbe stato davvero troppo, ma la curiosità fu più forte della paura e un giorno s’intrufolò in garage, per poi subito uscirne. Era stato un coraggioso tentativo. Del resto in quel garage vedeva ogni giorno entrare e uscire i componenti della famiglia con le loro automobili, grandi o piccole. Era sempre spalancato, quel garage, solo la sera veniva chiuso, per riaprirsi la mattina dopo. Una sera il diavolo ci mise la coda: fu quando Pierina, forse per provare quanto fosse comoda quella brandina che era stata messa apposta per lei e che aveva sempre disdegnato, si accucciò non vista in un angolo, e a sera, non vista, rimase chiusa dentro il garage. 

Fu per lei un’esperienza tremenda. Quando provò a uscire scoprì di essere prigioniera: fece di tutto per liberarsi, saltò sui tavoli, rovesciò bottiglie e barattoli. In quel garage entrava e usciva tutti i giorni la Cinquecento di famiglia. Dopo aver provato in tutti i modi a riconquistare la libertà, Pierina pensò che forse quella macchina sarebbe stata capace di spalancare la saracinesca di ferro del garage. Ma come fare? Forse scuotendola, forse mordendola. E fu così che, dopo aver infilato il muso nel deflettore del finestrino lasciato socchiuso, Pierina prese a mordere con rabbia il volante della Cinquecento sperando che così si mettesse in moto e aprisse la serranda. Il dramma notturno di Pierina fu ricostruito la mattina dopo dallo sconquasso ovunque: i segni dei denti sul volante della 500, e soprattutto la serranda in parte divelta, attraverso la quale quel fortissimo cane era riuscito a passare graffiandosi il muso pur di riconquistare la libertà. 

Passata la paura, poco per volta Pierina è diventata un cane sereno, socievole, affettuoso, al punto che in piena estate mostrò di interessarsi ai preparativi per la partenza di tutta la famiglia e del cane storico, per la consueta vacanza in camper. Ma, visibilmente incinta, quella volta rimase in giardino, dove nel folto della sua amata siepe di alloro scodellò quattro bellissimi cuccioli che non le assomigliavano affatto e che sarebbero stati, tutti meno uno, dati in affidamento a dei veri amanti di cani senza troppe pretese sulla purezza della razza. Con i quattro cuccioli Pierina è stata una madre amorosa, e quando tre furono dati in adozione (sembravano dei veri pastori tedeschi, non avrebbero ingannato un intenditore ma erano comunque molto carini) le rimase solo il più grosso, detto per questo il Ciccio, al quale apparve legatissima. 

Al cucciolino che cresceva a vista d’occhio, Pierina insegnava tutto: lo guidava nel bosco a caccia d’improbabili prede, gli insegnava a non inseguire il gatto di casa e a rispettarlo anche perché era il più anziano della combriccola, lo spingeva a non avere per l’uomo la stessa paura che aveva avuto lei, e soprattutto lo accudiva con grande cura. Spesso lo faceva accucciare vicino e con rapidi morsetti dei denti schiacciandosi con una smorfia buffa il naso contro il pelo, lo “liberava” da presunte pulci, con evidente soddisfazione del cucciolo che più mammone non poteva essere. Stavano sempre insieme, madre e figlio e sembravano entrambi non accorgersi nemmeno degli altri animali che popolavano il giardino. 

L’anno dopo, il Ciccio era diventato grande, si era emancipato, e la madre poteva godere della meritata vacanza, anche lei, in camper. A dire il vero fu lei a imporsi. Un attimo prima della partenza balzò a bordo guardando tutti con tono di sfida, come dire: “Provate ora a lasciarmi di nuovo sola, come avete fatto l’anno scorso”. Anche in autostrada, fu un compagno di viaggio ineccepibile, non creava nessun problema, come non avesse fatto altro nella vita che viaggiare. Al ritorno si fece accarezzare e con uno sguardo languido sembrò dire: ”Grazie della bella vacanza, ma soprattutto grazie di avermi riportata a casa dove ho ritrovato il mio cucciolo”. 

Un destino crudele era però in agguato. Per eliminare le volpi che attentavano al suo pollaio, un vicino di casa a dir poco sconsiderato aveva sparso nel bosco delle polpette avvelenate. La notte di Natale di quell’anno, Pierina e il suo amatissimo Ciccio morirono avvelenati: furono trovati stecchiti l’uno accanto all’altra, stretti in un ultimo abbraccio. Erano stati insieme tutta la vita, lo sarebbero stati per sempre.

Da “20 storie vere di cani veri” di Sandro Marucci, edizioni La Quercia 2021 – 10. 

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