Sul rapporto tra arte e pubblico. Il caso Dello Scompiglio

Intervista al curatore Ángel Moya García

In occasione dell’ultima inaugurazione alla Tenuta dello Scompiglio in Toscana, scambiamo due chiacchiere con il co-direttore dell’Associazione culturale, Ángel Moya García, in merito al rapporto tra arte e pubblico. La specificità del produrre progetti artistici nel mezzo della campagna lucchese, infatti, rende lo Scompiglio un interessante punto di osservazione e sperimentazione sul tema. 

Per affrontare la questione, partirei da un progetto dello scorso anno, il cui titolo, I can reach you (from one to many),dichiarava immediatamente un’idea di spostamento e condivisione. La curatela  condivisa con Daria Filardo e Pietro Gaglianò e i progetti degli artisti invitati (Bianco-Valente, Claudia Losi e Rocco Valerio Orlando) in un modo o nell’altro effettivamente segnavano un avvicinamento all’ambiente o al pubblico…

Vuoi raccontarci come è nato il progetto?

Il progetto “I can reach you (from one to many)” è nato da un desiderio di voler valicare i confini Dello Scompiglio per entrare in contatto diretto con il contesto in cui si inserisce, indagando, analizzando e mappando il territorio. Allo stesso tempo mi interessava che l’inaugurazione del progetto fosse solo un primo momento di verifica, che non dovesse esaurire un dato giorno, ma che si dilatasse per tutta la sua durata, attraverso dislocazioni, approfondimenti, incontri, laboratorio, ecc. Ho invitato altri due curatori per costruire insieme un progetto condiviso che potesse essere in grado di canalizzare e veicolare le diverse declinazioni che un incontro può generare. Infatti, gli artisti coinvolti, anche se con ricerche e con restituzioni formali molto distanti, hanno in comune alcuni fattori, tra cui la necessità di instaurare delle relazioni nella propria metodologia di lavoro. 

Che cosa è emerso? In particolare penso al lavoro di Valerio Rocco Orlando che, rispetto agli altri artisti, ha sviluppato un progetto che si è “costruito” con l’intervento del pubblico “performer occasionale”. Valerio ha spostato una vera e propria tenda in diverse tappe sul territorio lucchese…

È emerso innanzi tutto un senso di condivisione e, allo stesso tempo, di prospettive completamente differenti che a volte si intersecavano e a volte prendevano delle traiettorie completamente opposte, sia tra i curatori che tra gli artisti. Il caso di Valerio forse è quello più sui generis in quanto la sua installazione si modificava ogni volta. Dalla presentazione come studio nella prima tappa, in cui il pubblico, uno per volta, costruiva la drammaturgia dell’opera fino alle tappe successive in cui vari ospiti diversi aspettavano l’ingresso del “pellegrino”. Sia nelle tappe di Altopascio, di Lucca e poi, a chiusura del cerchio, di nuovo allo Scompiglio, sono intervenuti ospiti di ogni tipologia, da antropologhi a poeti, da psicoterapeuti a critici, ecc che accoglievano i visitatori per discutere insieme su una domanda che cammina.

Il fatto che la Tenuta dello Scompiglio sia in aperta campagna come influenza la programmazione artistica? È evidente che gli artisti sono sempre chiamati a confrontarsi con l’ambiente, fisico e non solo….

Teoricamente il contesto potrebbe connotare la maggior parte dei progetti che si sviluppano, ma ricordiamoci che uno degli aspetti più interessante Dello Scompiglio è il contrasto netto tra il genius loci della natura negli spazi esterni e la completa neutralità degli spazi espositivi interni. In quest’ultimo caso il contesto potrebbe essere qualunque cosa, lo spazio potrebbe essere inserito in qualunque città, e credo che le attività più interessanti siano quelle in cui gli artisti approfondiscono e riescono ad evidenziare questa dialettica paradossale.

Si potrebbe dire che lo SPE (Spazio Performativo ed Espositivo) allo Scompiglio sia lontano dai centri di produzione culturale, ma la verità è che oggi si fatica in Italia ad individuare questi centri, comunque non coincidono più con le grandi città e, al tempo stesso la Toscana costituisce un caso particolare. In fondo non vi è una città polarizzante e la regione vive una parcellizzazione dei centri abitati… Quale sforzo deve fare il curatore e l’artista verso il pubblico in questo contesto? E, in generale, ritieni che la trasformazione delle condizioni socio-economiche, con le sue conseguenze sull’offerta culturale abbiano cambiato o debbano cambiare la relazione con il pubblico?

Sicuramente fino a qualche anno fa i maggiori centri di produzione culturale erano localizzati nelle grandi metropoli, nei grandi nuclei urbani. Ormai, come ben sappiamo, è sempre più evidente la decentralizzazione, la necessità di defluire per trovare altri ambiti in cui lavorare, altri stimoli e altri pubblici. Le cosiddette mosche bianche, i luoghi eccentrici dell’arte contemporanea.  La Toscana si presta particolarmente a questo continuo spostamento, a questa dislocazione delle proposte, senza essere necessariamente vincolati a una città specifica. Si tratta di una necessità, ovvero sia di non chiudersi dentro le mura del proprio museo, ma di aprirsi verso il proprio contesto di riferimento, intercettando più che invitando, invadendo lo spazio urbano sia fisico che mentale. Naturalmente questo comporta il doppio di lavoro in termini di educazione dello sguardo, di accettazione, di interesse, di coinvolgimento e di fidelizzazione di un pubblico che deve essere innanzi tutto incuriosito dalle proposte. Questo lo sappiamo i curatori, ma lo sanno soprattutto tanti artisti che nelle ultime generazioni sono usciti del proprio studio, abbandonando la ricerca oggettuale per studiare lavori relazionali, partecipativi, pubblici, etc non sempre riusciti nella forma, ma interessanti dal punto di vista della metodologia. Per quanto riguarda le trasformazioni delle condizioni socio-economiche, è un tema delicato, in quanto ci sono troppe variabili come per dare una risposta univoca, ma non credo che sia un elemento, da solo, scatenante di trasformazione del rapporto con il pubblico.

Che cosa cambia oggi il rapporto con il pubblico? E come questo influenza il lavoro dell’artista e del curatore, a parer tuo? 

Cambia che in qualche modo è entrato in modo dirompente, a volte anche in modo prepotente, nelle ricerche degli artisti e nelle restituzioni formali che a volte diventano scevre di autorialità unica. Credo sia una maggior consapevolezza degli artisti nel cercare un maggior coinvolgimento e una maggiore partecipazione, eliminando qualunque concezione elitaria dell’arte e andando a rompere dei confini, di codici ermetici che negli ultimi anni avevano caratterizzato la scena, almeno quella nazionale.

In quali termini leggi il rapporto curatore/pubblico? Questo ha un ruolo nel tuo concepire e agire?

Il pubblico è o deve essere parte del pensiero del curatore?

È sempre rischioso voler accontentare tutti. Non credo nella democrazia dell’arte. È impensabile voler fare delle mostre di massa quando alla massa non interessa minimamente la cultura purtroppo. Preferisco essere meno e tentare di educare lo sguardo, non di imporlo, di divulgare dei codici di interpretazione più che di banalizzare le proposte e di allargare il pubblico incuriosendolo dalle proposte più che creare mostre ad hoc per avere un eventuale consenso.

Angel Moya Garcia (Córdoba, Spagna, 1980. Vive a Firenze) è critico e curatore d’arte contemporanea. Laureato in Storia dell’Arte all’Università di Córdoba (Spagna) e con studi in Filosofia presso l’Università di Salamanca (Spagna), è attualmente Co-Direttore per le Arti Visive dell’Associazione Culturale Dello Scompiglio a Lucca, consulente esterno della programmazione della Galleria Eduardo Secci di Firenze e socio dell’IAC – Istituto di Arte Contemporanea in Spagna. La dimensione fondamentale della sua ricerca si centra su tre indirizzi inevitabilmente interconnessi, attraverso una pratica curatoriale che segue il processo di lavoro in uno scambio dialettico fino al momento di verifica della mostra. Il primo indirizzo si centra sul concetto di identità, sulla collettivizzazione dell’individuo, sulla decostruzione del soggetto nella filosofia contemporanea e su come questi elementi caratterizzano e si relazionano con la produzione degli artisti delle ultime generazioni. Il secondo affronta interrogativi sulla trasversalità, attraverso l’analisi dei confini e l’identificazione e l’approfondimento di convergenze e linee intersecanti nelle diverse pratiche della contemporaneità. Infine, un terzo più dilatato si centra nei processi relazionali e collaborativi, nelle piattaforme di condivisione fisiche e virtuali e nei nuovi centri di produzione di contenuti che segnano il panorama contemporaneo.

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