Tre voci per una Biennale. Speciale Speech Art Venezia 2024

La Biennale di Venezia

Ogni biennio questa rubrica lascia spazio ad alcune voci dell’arte contemporanea, perchè esprimano la propria opinione sulla Biennale di Venezia appena conclusasi; così sviluppiamo una piccola indagine critica sulla manifestazione che, più di ogni altra, dovrebbe farsi espressione dei recenti andamenti artistici e socioculturali. Per la 60ma Esposizione Internazionale d’Arte la mini intervista esce a distanza, scavalla l’anno, quasi a mimare un piccolo passaggio verso la prossima edizione, perché è innegabile che la mostra vista nei mesi scorsi abbia aperto un varco di cui non si può non tener conto.

La Biennale di Adriano Pedrosa è stata un preciso atto politico, il passo forse inevitabile (ma fondamentale) in un cammino già iniziato, basti pensare all’edizione di Cecilia Alemani e a quella di Okwui Enwezor, da cui il curatore brasiliano si è distanziato per maggior coraggio e autenticità, perché Enwezor aveva di certo ben chiaro il concetto di colonialità della quale, però, non è riuscito a liberarsi nel costruire la mostra in Laguna.

In attesa di vedere il progetto di Koyo Kouoh – nominata direttrice della Biennale di Venezia 2026 -, abbiamo rivolto una stessa domanda a tre figure dell’arte contemporanea, il cui sguardo segna un significativo punto di contatto con il lavoro sviluppato da Pedrosa.

Come dicevamo, l’indubbio merito di Adriano Pedrosa è stato quello di affrontare un tema centrale dell’ontologia umana e della società contemporanea (Stranieri ovunque), obbligando a muovere lo sguardo verso le identità negate, ancora oggi, spesso anche dagli stessi attori (occidentali) dell’arte; mi riferisco ad esempio al tema dell’arte popular, un terreno ancora poco conosciuto e comunque sottostimato dal mainstream eurocentrico, o al rivelatore uso dell’antistorica espressione “terzo mondo” nel commento alle scelte curatoriali. Ma al di là di questo, guardando la mostra ho avuto la sensazione che fosse un poco come una tesi compilativa, più che di ricerca. Che ne pensi? Quale è la tua opinione sulla Biennale in oggetto, tanto sotto il profilo puramente artistico, quanto culturale e sociale?

Seguo il lavoro curatoriale di Adriano Pedrosa da diversi anni e credo che questa Biennale sia un chiaro riflesso non solo dei suoi interessi teorici ma anche di quelli personali.
L’inclusione di voci e prospettive che il mainstream europeo tende a considerare periferiche non è solo necessaria, ma anche urgente, soprattutto alla luce delle conversazioni generate intorno alla Biennale, che trascendono l’aspetto artistico per riflettersi su quello politico e culturale.
Il disagio generato in alcuni ambienti, soprattutto tra gli uomini bianchi europei, evidenzia l’importanza di promuovere questo tipo di mostre nei centri di potere.
Da un punto di vista strettamente curatoriale, si potrebbe sostenere che l’intenzione di essere ampiamente inclusivo ha lasciato, in alcuni casi, dei vuoti nel dialogo curatoriale e nella possibilità di generare connessioni più profonde tra le pratiche artistiche presentate. Tuttavia, considero che quello che veramente cercava questa Biennale, non era un’espressione puramente teorica, ma piuttosto un atto storico di decentramento, che personalmente spero sia solo uno tra tanti.

Omayra Alvarado-Jensen, gallerista, co-fondatrice di Instituto de Visión, Bogotà-New York

Omayra Alvarado-Jensen
Omayra Alvarado-Jensen

Credo che una mostra, un evento culturale di questa portata, con così tanti artisti e provenienti da tanti luoghi, non possa essere uno spazio per le certezze o per difendere una tesi in modo univoco. Ritengo che debbano esserci rigore e onestà per permettere ai visitatori di trovare le proprie risposte. Mi è difficile avere una prospettiva spassionata sull’ultima Biennale perché ne ho fatto parte (ndr. in quanto curatrice del Padiglione del Cile). I temi che mette sul tavolo sono questioni che attraversano sia la mia esperienza di vita, come migrante, sia il mio lavoro curatoriale degli ultimi dieci anni. Ciò che ho trovato interessante è vedere il disagio che questa Biennale ha generato nel circuito dell’arte europea e i labirinti retorici che alcuni critici – per lo più uomini bianchi – hanno trovato per problematizzare la presenza di così tanti artisti razzializzati e/o dissidenti. Senza dubbio, più che il tema identitario, ciò che mi sembra che questa edizione confermi – e non so se questo fosse nel progetto curatoriale di Pedrosa – è che stiamo vivendo “un’aspra battaglia a causa del passato”, come ho letto proprio in alcune di queste critiche. Credo che questa Biennale ci abbia dimostrato che la storia è al centro del dibattito e che le pratiche artistiche non eurocentriche apporteranno molto alla riscrittura di nuove narrazioni. Spero che questa Biennale sia solo l’inizio.
Andrea Pacheco, curatrice

Andrea Pacheco, foto di Alfredo Cáliz
Andrea Pacheco, foto di Alfredo Cáliz

Forse l’approccio vincente della Biennale si concentra proprio su questo: spostare l’attenzione verso identità costantemente negate, verso spazi di espressione sociale e culturale che si muovono ai margini o nell’anonimato, in contesti decentrati, nella dissidenza, trovando luoghi poco consueti nel contesto dell’Arte, di cui troppo spesso non ci si interessa. Questa nuova prospettiva riesce a rendere visibile ciò che non si vede quasi mai, che è una delle funzioni chiave dell’Arte Contemporanea, ovvero riscrivere la Storia, a partire dalla metaforica dissidenza multiforme.
Comunque, e dal punto di vista del semplice spettatore, credo che la Biennale si sia sovraccaricata di formalizzazione ed estetizzazione e che molti dei pezzi esposti, politici, carichi di discorsi enfatici, potenti e capaci di questionare, in realtà in un modo o nell’altro siano stati disattivati da come è stato concepito lo sviluppo dell’allestimento o dal percorso, o forse dal fatto che le opere in sostanza risultano poco leggibili. Si tratta quindi, per me, di una Biennale strana, con chiari e scuri, ma che solleva questioni cruciali per il nostro tempo, il cui passaggio segnerà la sua rilevanza nel contesto globale dell’arte contemporanea.

Avelino Sala, artista

Avelino Sala
Avelino Sala

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