Quando l’intimità si fa politica attraverso la pittura. Intervista a Romina Bassu

Parlare di donne e politica in tempi di ritorno femminista significa addentrarsi in un periglioso terreno, col rischio che tutto venga fagocitato da nuovi slogan e propaganda di movimento.

Romina Bassu è lontana da tutto questo. Il lavoro parte dall’intimo per farsi politico, la sua ricerca si sviluppa intorno a quella che si definirebbe “condizione femminile” riconducendo al senso antico di zoon politicon, uomo politico in quanto tale, sociale, appartenente a una comunità di cui è membro sensibile e attivo. 

La sua pittura, bella, figurativa, gradevole, apparentemente lieve si disvela attraverso l’ironia che potenzia una comunicazione dalla connotazione universale. Le sue donne vivono la stanchezza quotidiana, lo stress imposto da una cultura che da secoli ci vuole buone donne di casa, belle, sempre curate e pronte a mille impegni. Perfette sul lavoro, pasticciere per il nostro uomo a tavola, ma con rossetto e unghie perfette per mantenere viva la seduzione. La perfetta immagine degli anni ’50 che i quarantenni di oggi – uomini e donne – continuano ad avere come modello. 

Abbiamo incontrato l’artista a Roma, in occasione della sua personale “Monday blues” presso Studio SALES di Norberto Ruggeri, a cura di Manrica Rotili.

Partiamo dalla donna. Romina può considerarsi una attivista a suo modo? Una femminista come è stata considerata ex post Virginia Woolf, di cui molto abbiamo parlato nelle nostre conversazioni? 

Trovo sempre molto difficile ricevere e rappresentare delle definizioni, soprattutto perché l’approccio pittorico rimane estraneo alla razionalizzazione; il gesto si fa protagonista lasciando spazio a letture diverse che come i colori si stratificano e si combinano.

Tuttavia credo che la riflessione emersa dal mio lavoro sia coerente con il pensiero femminista, laddove per femminismo si intende una prospettiva inclusiva e aperta. Sento il bisogno di affrontare con l’arte qualcosa che ritengo necessario, mi rendo conto quanto la mia vita e quella di altre donne sia condizionata dal genere al quale apparteniamo molto più profondamente di quanto immaginassi.

Una cultura che abbiamo talmente tanto subito e assorbito da renderci spesso inconsapevoli nella nostra assuefazione. Il riferimento agli anni ’50 non è un caso. 

Le tue donne sono tutte delle deliziose bellezze alla Doris Day. Un po’ sbilenche però, mai esplicitamente drammatiche…

Per anni ho rielaborato soggetti femminili e atmosfere provenienti da immagini di archivio, locandine cinematografiche e pubblicitarie, foto a carattere familiare degli anni Cinquanta e Sessanta. Ho cercato di rielaborare quell’iconografia che con la distanza storica appare oggi una caricatura, ma che rappresenta in definitiva il nostro DNA culturale. La rappresentazione delle donne di quegli anni è alterata dalle immagini commerciali: concentratissime nel controllare la mimica facciale che doveva esprimere rassicurazione, accoglienza materna e al contempo seduzione. Ho percepito quanto peso fosse racchiuso in quello stereotipo che ancora oggi permea Il nostro immaginario; il mito sclerotizzato dell’angelo del focolare entra in contraddizione con la costante riproposizione di modelli fortemente incentrati sul sex appeal. La distorsione dell’asservimento sessuale non ha una connotazione esclusivamente erotica, ma soprattutto un significato politico.

Ho tradotto in pittura la difficoltà di allinearsi con quel ruolo sociale, difficoltà che non appare mai troppo esplicita, è sempre nascosta dietro un velo di tensione e sorrisi.

Di fatto le tue donne non sono sexy, ritraggono esattamente lo stereotipo della “donna della porta accanto”, la seduzione che rassicura, che conforta e non si rende protagonista. La moglie perfetta… potremmo dire che coprotagonista della tua opera è l’uomo assente o meglio la cultura maschilista carica di contraddizioni. I colori che usi, gli sfondi pastello, però lividi, che a volte sembrano vuoti profondi, sono parte di questa contraddittorietà evocata. Quale la ricerca dietro i colori?

I colori che scelgo per le mie opere sono nella maggior parte dei casi gradevoli, quasi color confetto. Mi piace l’idea che le tonalità accolgano lo spettatore, a colpo d’occhio ci si ritrova immersi in una sensazione di calma con sfumature carta da zucchero o attratti da un rosa Barbie. Forse i colori nel mio immaginario hanno la stessa funzione di quelle musiche da ascensore che intrattengono le persone durante una pausa. Approfondendo lo sguardo il contenuto si rivela in contrasto con quella prima sensazione quasi anestetizzante. Ci si accorge di come una delle mie protagoniste, immersa in uno sfondo celestino, sfoggi un’acconciatura perfettamente cotonata mentre è in preda ad un esaurimento nervoso. Questo contrasto accentua il sarcasmo dei miei soggetti.  

La perfezione nasconde un mondo di nevrosi. Da “Mammina cara” a “Lontano dal Paradiso”, i riferimenti cinematografici sono molti. Ma penso anche a Sylvia Plath o andando più indietro negli anni a Mrs Dalloway della già citata Virginia Woolf…

La letteratura e il cinema hanno influenzato moltissimo la mia produzione pittorica. Mi sono chiesta quale fosse il denominatore comune tra quei personaggi che hanno attirato la mia attenzione. Mi sono accorta che ho sempre apprezzato autori che si sono identificati con la loro zona d’ombra, e che scavando nella propria interiorità hanno capovolto la retorica dei buoni sentimenti. Spesso si tratta di donne che raccontano altre donne, penso a Virginia Woolf, Karen Blixen, Agnès Varda e Chantal Akerman. Attraverso un processo di identificazione una donna entra nell’esistenza di un’altra donna. Questo gioco di doppi evidenzia, con la scelta di legare la propria storia a quella di altri soggetti, l’esigenza di comprendere il rapporto della donna con la realtà sociale. Anche io ho assimilato questa formula, le mie protagoniste si presentano come un alter ego, raccontano con la loro nevrosi la mia riluttanza nei confronti di una certa cultura normalizzata che contiene ancora troppa misoginia.

Tornando al tema cinematografico, ultimamente sei passata dall’usare foto di archivio a modelle che tu stessa acconci…Quale è stato il motore del cambiamento? Quanto questo ha inciso sulla tua pittura?  

Per la mia ultima personale “Monday blues” avevo in mente delle pose e delle composizioni che raccontassero l’intimità del corpo e momenti che rappresentassero delle vie di fuga dal quotidiano.  Ho immaginato di spiare questi personaggi femminili da una fessura, cogliere quegli attimi di solitudine per esprimere con più libertà il loro silenzio.

Con le immagini di archivio i personaggi sono esposti ad una relazione con l’esterno, non sarei riuscita a inserire l’atmosfera nell’introspezione di cui avevo bisogno.

Alcune situazioni che ho dipinto corrispondono ad una narrazione molto cinematografica, le inquadrature evocano l’immagine successiva generando un racconto. Questo nuovo processo creativo prevede un mio intervento fotografico diretto e mi dà la possibilità di costruire l’immagine partendo da un punto di vista più personale. Prima, con le immagini di archivio, ero costretta a scovare, secondo una logica combinatoria, i miei significati in fotografie già risolte. Era una pratica più simile alla soluzione di un rebus in cui contenuto e forma si inseguivano, mentre con questo nuovo approccio ho la possibilità di arrivare in modo più diretto e intimo a ciò che intendo trasmettere con la composizione.

Questo mi fa pensare anche all’allestimento delle tue opere. Nonostante l’assenza di una sequenza narrativa, appare evidente la composizione di uno storyboard (senza alcun riferimento a sequenze cinematografiche, in questo caso). Quanto spazio ha questo aspetto nella tua ricerca?

Tra le mie opere non c’è consequenzialità, ma in qualche modo, come in un puzzle, è facile ricostruire un unico scenario. Il filo narrativo è rappresentato da un insieme di stati emotivi, quella tensione psicologica riesce a legare tutte le opere in una stessa dimensione.

Dimensione che rimanda un clima di nevrosi, appunto. Un ambiente con inespresse sonorità da attesa e con punti di color “confetto vecchio” mostra una emotività composta (che in realtà significa quasi malcelata) in cui rivedere le donne di Notorius o Vertigo. Si compone quasi un noir alla Hitchcock in cui le protagoniste sono scisse tra l’io e la loro imposta proiezione esterna. Sembrano al limite della psicosi, salvate però dalla goffaggine che le riporta a una sincera verità.

Romina Bassu nasce a Roma nel 1982, dove vive e lavora. Sviluppa il suo percorso di studi nell’Accademia di Belle Arti della capitale e presso la Facultad de Bellas Artes de Sevilla. Approfondisce i suoi studi viaggiando fra Inghilterra, Germania e Spagna.

Tra le ultime partecipazioni a mostre, premi e fiere: Monday Blues, Studio Sales di Norberto Ruggeri, Roma; Miart, Milano, 2019; Pop Art in Italia. Ieri, oggi, domani, Galleria Paola Verrengia, Salerno, 2018; 19esimo Premio Cairo, Palazzo Reale, Milano, 2018; Artissima, Torino, 2018; ArtVerona, Verona, 2018; As Velasca | Injury Time, Edicola Radetzky, Milano, 2018; Miart, Milano, 2018; Arte Fiera, Bologna, 2018; Male Gaze, Studio Sales di Norberto Ruggeri, Roma, 2017; Young & Forever Young, Galleria Anna Marra Contemporanea, Roma, 2017; Promises, Galleria Marcolini, Forlì, 2017; Art for art’s sake Guidi, Kühlhaus di Kreuzberg, Berlino, 2017; Premio Combat, Museo Civico G. Fattori ex Granai di Villa Mimbelli | Museo di Storia Naturale di Livorno, 2017; Social Utopia / Studi aperti Festival, XII edizione, Museo Tornielli, Ameno, 2016; Carte Blanche, Galerie Olivier Nouvellet, Parigi, 2016; Group psychology (and the analysis of the ego), Galleria Marcolini, Forlì, 2015; Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee 2015, Villa Brandolini, Treviso, 2015.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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