Piero Ostellino e il “liberalismo alle vongole”. Come e perché in Italia si combatte la guerra alla razionalità politica (I parte)

Una volta chi scrive inviò una e-mail all’editorialista del “Corriere della sera” Piero Ostellino, il quasi ottuagenario ex direttore craxiano del quotidiano di via Solferino, titolare della visione più ardita e confusa del pensiero liberale italiano. Nella lettera gli chiedeva da quali “sacri testi” attingesse la sua paradossale visione della politica italiana, individuando in Silvio Berlusconi un “liberale” che aveva tentato eroicamente di fare delle politiche liberali nel nostro Paese. Lui ribatté accusando lo scrivente di essere scemo. Gli si rispose chiedendogli se avrebbe accettato di ripetere il gaglioffo insulto di persona, magari incontrandosi in un bar all’aperto, per non destare equivoci di sorta.

Ostellino – che ha scolpito nella memoria storica sinonimi straordinari, come quello che indica nel fondoschiena di una donna “la fortuna sulla quale è seduta” – è un prodotto tipico d quel “liberalismo alle vongole” più volte denunciato da Eugenio Scalfari. Una dottrina politica che riesce a definire Berlusconi come un autorevole esponente del pensiero erede di John Locke, John Stuart Mill, Benjamin Constant, Luigi Einaudi e, sul versante economico, di von Mises e von Hayek,  senza aver mai spiegato come si possa considerare tale il proprietario di un impero televisivo in perenne conflitto di interessi, ciò che appunto dovrebbe far inorridire qualsiasi vero liberale e a causa dei quali di sicuro ne sarebbero inorriditi i maestri citati.

Ora, per carità, il pluralismo del pensiero ci è talmente caro che accettiamo volentieri di dover convivere con persone come Piero Ostellino ed anzi gli auguriamo molti altri fiumi di inchiostro benché affetti da inesauribili aporie, ma ci chiediamo come sia possibile che un essere umano possa confondere in modo talmente maldestro il diavolo e l’acqua santa, scambiandoli per sostanze omogenee.

Berlusconi liberale? Ma dove è possibile rintracciare una qualsiasi riga scritta della dottrina in cui si affermi che un Presidente del Consiglio – titolare di funzioni pubbliche, quindi di un potere decisorio che dovrebbe trovare il suo equilibrio costante nella cura degli interessi collettivi – può al tempo stesso essere proprietario di concessioni su un bene pubblico come le frequenze televisive? E quale mai pensatore avrebbe intercettato una pratica liberale nel predisporre testi normativi che servono per evitare condanne penali alle quali può essere soggetto in seguito a gravi e infamanti reati commessi addirittura prima della sua assunzione politica? Ci piace ricordare al pervicace editorialista del “Corriere della sera” quello che sottolinea uno dei più grandi filosofi liberali del Novecento, John Rawls proprio in riferimento all’attività legislativa: “Il liberalismo politico afferma che ogni volta che il legislativo affronta problemi che riguardano questi elementi essenziali (cioè la compatibilità delle decisioni prese con gli interessi collettivi, n.d.r.) e sono loro contigui li deve risolvere, per quanto possibile, per mezzo di principi e ideali accettabili anch’essi per tutti i cittadini. Solo una concezione politica della giustizia tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che ogni cittadino la faccia propria può essere base della ragione e giustificazione pubblica” (in “Liberalismo politico”, Ed. di Comunità, p. 126). Dove mai è riscontrabile una “accettabilità” da parte dei cittadini (nel senso che viene incontro ai loro interessi comuni) nella depenalizzazione del “falso in bilancio” quando Berlusconi ne era accusato, cancellando così alla fonte il reato contestatogli? E come è altrimenti possibile individuare una “pratica liberale” nella violenza accusatoria con la quale un imputato (sempre lui, il premier) si rivolge al suo giudice naturale, colpevole soltanto di aver esercitato l’obbligatorietà dell’azione penale?

Sul piano della razionalità penalistica, poi, in tutti gli articoli del nostro editorialista troviamo voragini di insensatezza. Ad esempio in materia di intercettazioni, argomento che lo appassiona talmente tanto da avervi dedicato quasi tutte le sue ultime fatiche giornalistiche. Certo che la pratica intercettatoria confligge con i diritti individuali della persona, anche di quelli di un Totò Riina e di un Bernardo Provenzano, in quanto scardinano dall’interno la loro vita privata. Ma si tratta pur sempre della vita privata di due boss mafiosi, cioè di fattori inquinanti e distruggenti l’interesse collettivo, il perno attorno al quale si genera e si riproduce la dottrina liberale. Ora, acconsentire alla principale critica profusa da Silvio Berlusconi – che le intercettazioni telefoniche dovrebbero essere legittime soltanto per i reati più gravi, quali appunto quelli mafiosi – si scontra proprio con l’esigenza degli interessi collettivi, che possono essere lesionati anche dal reato di “falso in bilancio”, o “prostituzione minorile”, o “concussione e abuso d’ufficio” e quindi con uno dei parametri cardinali della dottrina liberale. Ma questo punto sarà approfondito nella prossima puntata di queste riflessioni (I-segue).

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