PADOVA – Secondo quanto dichiarato dalla Securities and Exchange Commission (SEC), l’ente governativo di controllo sulle aziende quotate in Borsa, la maggior parte delle aziende tecnologiche americane con sede nella Silicon Valley avrebbe eluso il pagamento di 225 miliardi di dollari di tasse federali.
Parcheggiando i propri profitti all’estero, multinazionali del calibro di Apple, Google, eBay e Hewlett-Packard riescono a ridurre i propri oneri fiscali di miliardi di dollari. Così facendo, non permettono alla macchina statale americana di immagazzinare efficacemente le entrate necessarie per finanziare i progetti dell’esecutivo. Il confronto con quanto pagato dal contribuente americano medio è imbarazzante e pone forti dubbi sulla sostenibilità di tali meccanismi.
E’ necessario sottolineare che le normative americane in materia fiscale permettono alle imprese di ridurre la propria pressione fiscale tramite appunto l’accumulo di profitti offshore. Il problema, però, riguarda l’uso intensivo ed esteso che viene fatto di queste regolamentazioni. Raramente le grandi multinazionali, soprattutto nel settore della tecnologia, pagano l’aliquota standard del 35% richiesta dalla legge statunitense. Gli ultimi studi al riguardo parlano di una più probabile percentuale del 15%. Nella maggior parte dei casi, il gap viene reinvestito all’interno degli Stati Uniti sotto forma di obbligazioni o titoli azionari, pur trattandosi di capitali mantenuti all’estero. Investire tali somme di denaro all’interno dei confini nazionali permette così alle aziende di evitare che i profitti possano essere tassati dagli organi statali competenti.
Sulle 50 compagnie analizzate dal rapporto del Centre for Investigative Reporting e The Bay Citizen, cinque di queste – Cisco Systems, Apple, Hewlett-Packard, Google e Oracle – detengono circa il 70% dei 225 miliardi di dollari accumulati all’estero dalle aziende americane. Apple ed Oracle, in particolare, hanno pubblicato nelle loro dichiarazioni fiscali alla SEC di possedere rispettivamente 40 e 41 miliardi di dollari oltremare, pagando un’imposta effettiva totale del 15,3% per l’azienda di Cupertino e del 20,9% per Oracle.
I rappresentanti delle multinazionali prese in considerazione da questo studio hanno preferito non rilasciare alcun commento sulle ricchezze accatastate in conti offshore. I dati forniti sono stati quindi elaborati tramite le informazioni finanziarie rese pubbliche dalle stesse aziende visto che, negli USA così come in Europa, non c’è l’obbligo per il mondo imprenditoriale di pubblicare quanto è stato versato nelle casse dell’erario pubblico.
Nei prossimi anni, oltre a questi vuoti normativi enormi, sapientemente sfruttati dai fiscalisti e tributaristi aziendali, le compagnie della Silicon Valley beneficeranno inoltre di sgravi fiscali sugli utili delle loro sussidiarie estere. Il Joint Committee on Taxation ha stimato che il costo di questa normativa fiscale per il governo americano si attesta in 1.5 miliardi di dollari per i prossimi due anni.
Se allarghiamo l’orizzonte del nostro discorso all’intero mondo delle multinazionali USA, il totale dei profitti conservato in conti offshore sale ad una vertiginosa cifra di 1.7 trilioni di dollari. Una montagna di soldi che, ovviamente, non può essere tassata dall’Internal Revenue Service, l’ente fiscale americano. Il senatore Carl Levin, Presidente della sottocommissione d’inchiesta del Comitato Homeland Security and Governmental Affairs, ritiene che la maggior parte delle multinazionali a stelle e striscie “usano l’odierno sistema fiscale per dare vita ad inganni ed espedienti con l’obiettivo di evitare il pagamento dell’effettiva percentuale di tasse dovute”. Il beneficio per le singole compagnie, secondo il senatore Levin, è enorme. Si tratta di un “sistema che le multinazionali hanno usato per trasferire offshore miliardi di dollari di profitti e per sfuggire al pagamento di miliardi di dollari di tasse”.
Consapevoli di queste stime e del loro influsso negativo sulle politiche pubbliche, fa sorridere la richiesta avanzata negli ultimi mesi dalle aziende della Silicon Valley di uno “scudo fiscale” per rimpatriare parte di questi capitali detenuti all’estero. Le imprese, infatti, stanno tentando, grazie ad un’intensa attività di lobbying nelle stanze del potere a Washington, di far accettare all’amministrazione Obama il rientro dei loro guadagni nei confini nazionali con un contributo minimo forfettario del 5%. La leva su cui fanno perno le diverse associazioni nate per promuovere questa idea, vedi ad esempio la WIN America campaign supportata, tra l’altro, dalla Silicon Valley Tax Directors Group, è di chiara matrice economica. Si ritiene, infatti, che il rimpatrio “garantirebbe la raccolta di 75 miliardi di dollari in tasse virtualmente dal giorno alla notte”, fornendo un immediato beneficio al paese intero.
Andando a ritroso ne tempo, però, è possibile notare che una simile amnistia è stata già concessa nel 2004 e non ha fornito i risultati promessi. Uno studio pubblicato nel 2009 dal National Bureau of Economic Research ha stabilito che dei 300 miliardi di dollari rimpatriati la stragrande maggioranza, il 92% circa, è finita nella mani degli azionisti sotto forma di dividendi. Difficile pensare che il restante 8% abbia contribuito allo sviluppo e alla crescita economica nazionale. Di questo ne è convinta Kimberly Clausing, professoressa di Economia al Reed College di Portland, secondo cui l’intera operazione si è rivelata “un inatteso guadagno per gli azionisti”. C’è quindi il rischio di un nuovo buco nell’acqua anche se, dalle parole di Obama, il governo americano non sembra intenzionato a concedere una nuova finestra esentasse alle grandi imprese multinazionali.