PADOVA – Dopo esser venuti a conoscenza del misero contributo che aziende del calibro di Starbucks e Amazon versano nelle casse dell’erario, i cittadini inglesi sono di fronte all’ennesimo scandalo che coinvolge il mondo delle imprese.
Una sussidiaria della Associated British Foods (ABF), gruppo che tra l’altro controlla il marchio Twinings, è accusata di versare una cifra irrisoria di tasse allo Zambia, uno dei più poveri stati dell’intero continente africano. Il rapporto “Sweet Nothing”, pubblicato da ActionAid, sottolinea che, dal 2007, la Zambia Sugar ha ammesso di “non pagare virtualmente tasse” nonostante abbia generato profitti per un totale di 123 milioni di dollari. L’analisi presentata dall’ONG indipendente, durata ben 12 mesi, ha chiarito quali sono i metodi legali che permettono alla Zambia Sugar di evitare la maggior parte degli oneri fiscali.
In primo luogo, c’è l’evidente supporto di noti paradisi fiscali – Irlanda, Paesi Bassi e Mauritius – i quali hanno permesso all’azienda di eludere circa 13 milioni di dollari lordi l’anno, per un totale di 84 milioni di dollari. La Zambia Sugar, ad esempio, si è vista costretta a pagare ad una consociata irlandese, la Illovo Sugar Ireland, l’equivalente di 48 milioni di dollari, di cui 3 milioni per “servizi manageriali” (in inglese “management services”). E’ abbastanza singolare, per non dire curioso, che non ci sia nessun manager o dipendente in Irlanda che lavori in quell’azienda. La sede, sempre che ne esista fisicamente una, è vuota. L’ABF ha dichiarato che ha già preso provvedimenti per correggere questo errore di contabilità anche se, dagli ultimi dati disponibili del 28 gennaio, non risulta alcun cambiamento.
Appoggiarsi alla permissiva giurisdizione fiscale delle Mauritius, inoltre, permette all’azienda di ridurre drasticamente i propri oneri sui dividendi, passando da una percentuale minima del 15% ad una ancor minore del 5%. Il costo per le casse dello stato zambiese è stato quantificato in 8 milioni di dollari.
Non bisogna però cadere nel facile gioco degli accostamenti alla realtà quotidiana dei paesi industrializzati. Le cifre sopra riportate, seppur danno l’impressione di essere di poco conto, sono in realtà una spina nel fianco per il popolo dello Zambia che vive ancora per due terzi con meno di 2 dollari al giorno. ActionAid ha calcolato che i soldi scomparsi nella fitta rete di “scatole cinesi” messa in pratica dalla ABF avrebbero potuto aiutare 50.000 bambini ad avere una scuola, garantendogli almeno l’istruzione elementare. In più, il totale dei guadagni nascosti nei paradisi fiscali dall’azienda supera di 10 volte il totale che il Regno Unito versa ogni anno allo Zambia, ex colonia inglese, per aiuti al sistema educativo nazionale.
Un portavoce della Illovo Sugar ltd, la controllante diretta della Zambia Sugar, ha da poco preso le difese della propria azienda annunciando pubblicamente che non sono “indaffarati in alcunché di illegale ed immorale”. Inoltre, sono “orgogliosi della Zambia Sugar e dell’enorme contributo che questa rende all’economia dello Zambia. “Dal 2008 Illovo”, prosegue il dipendente, “ha investito 150 milioni di sterline con l’obiettivo di raddoppiare la capacità di produzione in Zambia, creando il più grande zuccherificio in Africa. Questa ed altre attività prevedono l’impiego di più di 5000 persone”.
La risposta di ActionAid è stata affidata a Chris Jordan, co-autore del rapporto nonché specialista fiscale dell’ONG. Per l’attivista, il fatto di evitare le tasse in Zambia “aiuta a mantenere la popolazione affamata […] contribuendo a danneggiare l’intera economia”. Conclude sostenendo che “questo è veramente un caso sconvolgente in cui il gruppo ABF è andato fino in fondo per assicurarsi di non pagare virtualmente alcuna tassa in un paese molto povero. L’elusione fiscale non è ingegneria fiscale indolore”.
La prospettiva cambia in funzione di chi si ha di fronte. Se per l’azienda si tratta di investimenti utili non solo per il paese zambiese ma per l’intero continente africano e quindi non è possibile parlare di colpe nell’alleggerire il proprio onere fiscale visti i risultati occupazionali raggiunti a livello locale, per i promotori del rapporto questa vicenda è invece l’ennesima dimostrazione della carenza di etica da parte delle multinazionali occidentali nel gestire un proprio business in un territorio povero come lo Zambia.
La domanda che sorge spontanea, o che dovrebbe farlo, ricade nella sfera della moralità. E’ giusto permettere alle grandi aziende multinazionali di sfruttare le diverse legislazioni nazionali in materia fiscale per poter abbattere drasticamente i propri costi fissi? Bisogna ricordare che lo Zambia si ritrova a far fronte ad uno dei debiti pubblici più ingenti dell’intera Africa sub-sahariana. Per poter continuare a sostenerlo il governo zambiese è costretto a limitare la spesa pubblica in beni e servizi essenziali.
Inoltre, la discussione potrebbe allargarsi anche alla perdita di competitività delle aziende locali nei confronti delle industrie estere, visto che per loro le tasse ci sono e devono essere pagate.
Sarà possibile fare qualche considerazione in più alla fine di questa settimana, quando i paesi che appartengono al G20 si incontreranno per parlare, tra l’altro, di standard internazionali minimi da adottare in materia fiscale. Avremo modo di capire se le parole del vice-primo ministro inglese Nick Clegg sulla necessità di combattere chi “scherza con il sistema, cercando di prenderci tutti per stupidi” saranno l’ennesimo slogan politico o daranno vita a sforzi concreti.