Le “larghe intese” di Napolitano. Le differenze fra il ’76 e oggi. Storicismo o riflesso condizionato?

ROMA – “Scrivere di storia è fare storia del presente” scriveva nei Quaderni del carcere Antonio Gramsci partendo dall’assunto crociano che “ogni vera storia è storia contemporanea”.  E aggiungeva: “è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive”.

Probabilmente  è da questa ispirazione storicista che il Presidente Napolitano ha preso l’abbrivio per trarre occasione, é sembrato ai più, dalla commemorazione del dirigente comunista Gerardo Chiaromonte, suo amico e compagno di vedute politiche oltre che conterraneo, per una riflessione storica sulla vicenda della politica di unità nazionale nel 1976 volgendola come esempio o monito per l’intricata crisi politica del momento. Quella politica prese avvio con la proposta di “compromesso storico” avanzata dal PCI di Berlinguer nel 1973 all’avversario storico, la DC, e a tutte le forze democratiche laiche e cattoliche. Il cosiddetto “governo delle astensioni” guidato da Andreotti fu la conseguenza del risultato delle elezioni politiche del giugno ’76 che avevano visto due vincitori: il PCI al 34,4% e la DC al 38,7% costretti a convivere in qualche modo sullo sfondo, come ha ben ricordato Napolitano, di una gravissima crisi economica segnata dall’inflazione a due cifre e dall’incipiente attacco terroristico condotto dalle “Brigate rosse” e altri gruppi eversivi. Nella strategia comunista quel governo era però considerato una prima tappa per la realizzazione di un vero governo di unità nazionale con dentro il Partito comunista. Per il leader democristiano Aldo Moro, che a quel tentativo venne incontro divenendone protagonista e anche vittima, era il sentiero stretto attraverso il quale far passare lo sblocco della democrazia italiana, la “democrazia difficile” come disse,  per renderla normale e “scorrevole” basata sull’avvicendarsi fra forze tra loro alternative come erano la DC e il PCI.

Un partito quest’ultimo allora impossibilitato a governare, malgrado Berlinguer avesse già accettato l’ombrello della NATO, per i suoi residui legami internazionali con l’Unione sovietica fieramente ostativi in un mondo bipolare segnato dai rigidi confini della “Guerra fredda”. Per i comunisti italiani però il “compromesso storico” e i governi di “unità nazionale” avevano anche un’altra e più profonda motivazione: da una parte l’esigenza di mettere al riparo la democrazia italiana dai pericoli di colpi reazionari e liberticidi come era accaduto nel Cile di Allende e, dall’altra, creare uno schieramento ampio per avviare le riforme strutturali, gli “elementi di socialismo” li chiamò Berlinguer, della società e dello Stato; l’ampiezza era necessaria per bloccare le inevitabili reazioni dei poteri e dei ceti possidenti colpiti dall’eventuale  e incisivo moto riformatore. La frase ricorrente a spiegare questo assunto in casa comunista era: “col 51% si può governare ma non si fa la rivoluzione”. Erano quindi governi, almeno nelle intenzioni, pensati per il cambiamento; e che cambiamento! Ricordare, sebbene in modo succinto, quel contesto storico, nazionale e internazionale, in cui agirono i diversi contendenti e in cui si svolsero le loro azioni, iniziative e proposizioni, è necessario per evitare che l’ispirazione storicista scada in una riproposizione superficiale e banale di un’analogia storica con la condizione politica nazionale del presente. Un’analogia fuorviante soprattutto perché sono diversi, e profondamente diversi, i protagonisti della scena politica: Bersani non è Berlinguer certo, ma, soprattutto, Berlusconi non è Moro. L’unica cosa che a prima vista sembra uguale è la gravità della crisi del Paese anche se, e la questione non è secondaria, diversamente caratterizzata sul piano economico e politico. Rispetto al ’76 le parti in commedia sembrano rovesciate: oggi, a differenza di allora, è la destra populistica acostituzionale e, a volte,  anticostituzionale, berlusconiana che chiede di abbracciare la sinistra per salvare non gli interessi del Paese che sbandiera cinicamente a piene mani facendosene scudo, ma  il suo capo e i suoi personali interessi spingendo a mettere da parte la “questione morale” che insieme a quella sociale costituisce, per l’appunto, l’intreccio indissolubile e preminente su cui fondare un governo di cambiamento o di scopo anche a breve termine. “Larghe intese” paralizzanti sarebbero una cura peggiore del male perché rinfocolerebbero la sfiducia verso i partiti – testimoniata oggi dal successo del M5s – che allora, nel ’76, era inesistente.

Il coraggio di allora fu quello di tentare il cambiamento richiesto dal Paese attraverso un compromesso fra forze democratiche e costituzionali, guidate da leader politici amati e rispettati. Il coraggio di oggi sarebbe quello di fare altrettanto passando per il sentiero stretto di un governo che rimetta la vita politica e i partiti sul terreno di un’inattacabile etica pubblica, del rispetto della Costituzione e del suo principio fondamentale che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge; ridando centralità ad un Parlamento rinnovato ed espressione più piena della volontà di cambiamento. Nel ’76 questo accadde, ma non ebbe, purtroppo, sviluppi durevoli. Evocare le “larghe intese” di allora, che poi si composero nel sostegno responsabile di quasi tutti (PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI) a un governo monocolore di minoranza DC (perché Berlusconi e Monti non fanno responsabilmente lo stesso nei confronti del PD?), per dire che andrebbero bene anche adesso traducendole però, o lasciando intenderne la traduzione, nel governissimo richiesto stentoreamente da Berlusconi, in un contesto economico, sociale e politico, anche internazionale, completamente diverso è un esercizio di “storicismo” ideologico più che crocianamente idealistico. Non è lo storicismo gramsciano che analizza la materialità delle forze in campo nei processi storici, attento all’”essere” dei rapporti di forza in presenza ma anche al “dover essere” delle forze progressiste. Quello storicismo in cui la distinzione fra le “forme e il contenuto” dei soggetti, dei fenomeni e dei  processi storici è sì puramente “didascalica” ma non perché l’analisi debba fermarsi alle loro formali e visibili rappresentazioni nei diversi gradi delle sovrastrutture ideali e politiche esimendosi dall’analizzarne i contenuti materiali a cui sono inseparabilmente intrecciate. Insomma esimendosi dall’”analisi concreta della situazione concreta” in tutti i suoi aspetti e dimensioni politiche, sociali e nella piena considerazione dello spirito pubblico e dell’opinione pubblica. Uno “storicismo” che porta a riproporre acriticamente soluzioni e forme del passato più che “storicismo” è un riflesso condizionato.

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