Toh chi si rivede la bicamerale per le riforme

Gli ingloriosi precedenti. L’origine delle forzature antidemocatiche. Per una riforma della Costituzione manca il mandato popolare. Un percorso pericoloso che mette da parte la vera priorità: la legge elettorale

 

ROMA – “Errare è umano, perseverare è diabolico”. Mai il saggio proverbio popolare è stato più attuale. Prendiamo l’ennesimo tentativo messo in campo dal governo Letta e dalla maggioranza Pd-Pdl-Lista Monti che lo sostiene di avviare le cosiddette riforme istituzionali. Prima di acconciarsi al grande passo il Pd, in particolare, ha dovuto dimenticare rapidamente la natura del governo: “scelta obbligata”, di “emergenza” a “breve scadenza” giusto per fare gli interventi economici immediati, la legge elettorale e, sul piano costituzionale, la riduzione numerica dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto e l’abolizione delle Province. Poi, subito, di nuovo alle urne. Così dissero i democrats sostenitori delle “larghe intese”, almeno sui giornali perché in verità nulla fu concordato e scritto. Non siamo mica in Germania dove SPD e CDU per fare la grosse koalition a momenti andavano dal notaio per redigere l’atto programmatico. Ma si sa, i tedeschi sono notoriamente pignoli, mentre noi italiani siamo i soliti arrangiatori creativi. Di questa creatività dette subito un saggio il Presidente del Consiglio Letta in sede di dichiarazioni programmatiche davanti alle Camere prospettando un governo di “lunghe intese”. Quindi, adesso, invece di affrontare con gli strumenti che la Costituzione prevede, art. 138, le tre modifiche costituzionali sopra accennate  si dà il via al dejà vu dell’ennesima commissione bicamerale coadiuvata anche da esperti non parlamentari per redigere una riforma ben più sostanziosa della Costituzione. Partendo addirittura dalla forma di governo: presidenzialismo o semipresidenzialismo. Il che non è una bazzecola. Per essere cosa seria, ma dubitiamo fortemente che i novelli padri costituzionali ne siano consapevoli, la riforma, che è impresa ben diversa da un’adeguamento  manutentivo, dovrebbe comportare una modifica di un certo numero di articoli della Carta riguardanti il nodo essenziale dell’equilibrio dei poteri fra legislativo ed esecutivo ed anche giudiziario visto che il Presidente è capo del CSM. Ma questo Parlamento non è stato eletto per riformare nel profondo la strumentazione  istituzionale della Costituzione.  Un’ assenza di mandato non è cosa secondaria. Ma a parte questa quisquilia tutti sanno che quando in Italia non si vuole risolvere un problema si fa una commissione apposita. L’antenata di quella in fieri risale agli anni ’80 e fu la commissione bicamerale Bozzi (1983-85), seguita dalla Iotti-De Mita (1993-94) e da quella ancor più famosa, per i segni impressi sulle carni della sinistra, gestita dal Presidente D’Alema (1997-98) ingloriosamente finita con la stampa, da parte di Berlusconi che l’affossò, del libro rosso sugli orrori del comunismo. Tutte e tre le commissioni non hanno combinato un bel niente. Ma la talpa della manomissione della Costituzione ha comunque continuato a scavare nelle menti deboli ed oggi sembra arrivata a buon punto del tunnel. L’impostazione la dette Craxi. Cominciò a parlare di una Grande Riforma – senza per la verità specificare granchè nel merito – che avrebbe dovuto risolvere il problema dei problemi: la lentezza dei processi democratici, anche quelli parlamentari, rispetto alla  sull’eviscerazione dei polli. Come uscire dal dilemma? La via indicata dal leader socialista non era quella di accelerare, magari allargandoli, i processi decisionali democratici ma dare più potere agli esecutivi liberandoli dal dover dare ascolto più di tanto alle assemblee istituzionali. Insomma con meno democrazia e più “decisionismo” riassunto nel presidenzialismo. Fino alla personalizzazione estrema del potere nel leader più o meno carismatico, populisticamente acclamato, plebiscitato e vezzeggiato dalla folla e per questo al di sopra di ogni altro vincolo di legge che, come Berlusconi, ha occupato la scena politica dell’ultimo ventennio. Sappiamo come quell’impostazione personalistica e leaderistica poi abbia fatto strada nella seconda Repubblica. Non tanto nella strumentazione istituzionale rimasta tale e quale quanto nei partiti che sono quasi tutti diventati formazioni personali e per questo sommamente populistiche. Oggi anche leader avveduti come Prodi, per esempio, aprono al sempresidenzialismo o presidenzialismo che dir si voglia in nome di stabilità e governabilità. Così come, ça va sans dire, Renzi e Veltroni, e altri nel Pd. Anche il premier Letta, uscendo fuori dal seminato, ha alluso al presidenzialismo suscitando gli hurrà della destra che l’ “uomo solo al comando” ce l’ha nel sangue.

La motivazione è sempre quella craxiana: poter decidere con rapidità. Per questo è necessario farlo in pochi. Poi però accade che quei pochi prendano decisioni sbagliate o discutibili che sollevano robuste contrarietà e opposizioni nella società civile e in quella politica. E allora quello che doveva essere celere viene bloccato per assenza di discussione e partecipazione democratica. Per cui tutto rallenta e si intartarughisce. Alla fine della fiera per sgomberare gli ostacoli che frenano ci si affida al manganello. Sta di fatto che il governo ha avviato un processo pericoloso: sia se va a segno sia se non ci va. Intanto, pur di varare quella che sembra un’assicurazione di lunga vita, minimo 18 mesi a partire da giugno per un esecutivo che doveva essere di breve durata – ma Napolitano che conosce i suoi polli partitocratici proclivi all’impaludamento ha perentoriamente ridotto il termine ad un anno -, si è messa da parte la vera urgenza istituzionale: una nuova legge elettorale. Vietato parlarne per ora. Ma è facile immaginare che sarà vietato parlare in Parlamento di qualsiasi altra cosa possa disturbare il governo e la bicamerale. Probabilmente i risultati elettorali delle amministrative che hanno visto resistere il Pd, arretrare il Pdl e crollare vistosamente il M5s sono stati interpretati come un’endorsement alle “lunghe intese”. “Risultati incoraggianti” ha detto Enrico Letta. Errore. L’enorme astensionismo unito al voto grillino, sebbene ridotto, dice che la sfiducia e la rabbia dei cittadini non è diminuita. E può tornare ad esplodere in forme nuove, pericolose e più vaste di fronte all’inconcludenza delle “lunghe intese”. Se l’interpretazione da parte del Pd è quella dello scampato pericolo o, peggio, del “passata la festa, gabbato lo santo” allora si lavora per un ritorno alla grande di Grillo o di altri ben peggiori di lui. Anche perché il celebre comico, diventato leader politico grazie ai suoi detrattori, non si rende ben conto del perché abbia perso un bel po’ di voti. Probabilmente per la stessa ragione per cui non ha capito a fondo perché li ha presi. Nell’attesa di capirci qualcosa se la prende con tutti in malo modo andando fuori di testa. Anche con chi, Rodotà e Gabanelli, pensa che dovrebbe essergli grato tacendo. Mentre, invece, ne dovrebbe seguire i consigli. Quelli di Casaleggio non funzionano. Anche qui “errare è umano, perseverare è diabolico”.

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