In Veneto scoppia la protesta contro la Benetton. La delocalizzazione dai risvolti tragici

ROMA – Chissà come agirà il nuovo governo di Enrico Letta sul tema della delocalizzazione. Un girone dantesco, direbbe il defunto economista James Tobin, che nell’arco di pochi anni ha messo i lavoratori-consumatori per strada e le piccole imprese sul lastrico.

E tutto, grazie a mancanza di regole internazionali delle quali ogni lavoratore dovrebbe godere e ogni azienda rispettare, ovvero un lavoro nel rispetto dei diritti e quindi un salario e  un’esistenza dignitosi. Ieri in  Veneto, patria del boom economico degli anni 80-90, si sono registrate diverse manifestazioni contro uno dei noti marchi del cosiddetto “made in Italy”. Sono stati presi di mira gli store della Benetton a Venezia, a Padova e anche a Vicenza per boicottare i prodotti della nota azienda di Ponzano Veneto. A scatenare la protesta il recente crollo della fabbrica tessile in Bangladesh, dove anche il gruppo Benetton produceva alcuni capi e dove sono morti oltre mille operai. “Uomini e donne – hanno fatto sapere gli organizzatori – che lavoravano  in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza e in palese violazione dei diritti anche più basilari dei lavoratori”.

In alcuni store del veneto alcuni attivisti hanno bloccato i punti vendita posizionandosi di fronte all’entrata con i volti coperti da passamontagna multicolor e grandi striscioni che recitavano “Blockupy Benetton”, oppure “Bangladesh… United horrors of Benetton“.
Dopo l’incidente avvenuto lo scorso aprile il gruppo Benetton, che avrebbe dovuto sapere a chi aveva appaltato la produzione, ha smentito qualsiasi  coinvolgimento con la fabbrica crollata: “Riguardo alle tragiche notizie che provengono dal Bangladesh – fu la nota diramata dopo il tragico evento  – Benetton Group si trova costretta a precisare che i laboratori coinvolti nel crollo del palazzo di Dacca non collaborano in alcun modo con i marchi del gruppo Benetton”. Tuttavia, le foto scattate nel luogo dopo il crollo non lasciano adito a dubbi, visto che tra le macerie furono trovate magliette e articoli con l’etichetta Benetton. Così davanti all’evidenza dei fatti l’azienda trevisana ha ammesso di aver appaltato una parte della produzione all’azienda in Bangladesh e ora si è addirittura fatta promotrice di un’inziativa a sostegno delle vittime e delle loro famiglie.
Tuttavia, il problema di fondo rimane. Le aziende delocalizzano in luoghi, come il Bangladesh, dove le regole spesso sono carenti se non addirittura inesistenti e i costi di produzione  bassissimi. Intanto l’effetto boomerang si fa sentire anche nel Paese d’origine dove gli operai e gli impiegati restano a casa, perdono quindi il lavoro e il potere d’acquisto che avevano acquisito nel corso degli anni e l’economia si ferma assieme al crollo dei consumi. Non fa una piega.  Insomma ingiustizie sociali, che hanno ripercussioni anche sull’ambiente,  vengono quotidianamente ignorate in assenza di politiche adeguate, specie quando le produzioni si spostano come dei pacchi postali da un luogo all’altro alla ricerca della migliore convenienza economica.

Oggi un operaio in Bangladesh guadagna poco più di un dollaro al giorno. Insomma, viene da sè,  quanto può essere conveniente  per un’azienda spostare la produzione fuori dai confini nazionali. Il governo del Bangladesh, sempre dopo i recenti fatti,  avrebbe approvato un emendamento alla legge sul lavoro. Un’ipotesi che apre ai lavoratori del tessile la possibilità di iscriversi a un sindacato senza la preventiva approvazione del proprietario della fabbrica.  Insomma,  passi da giganti. E nel nostro Paese? Per ora il Made in Italy rimane tutto un programma: indefinito.

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