Oltre la lotta

ROMA – Chi l’avrebbe detto che un fazzoletto di terra dimenticato da Dio, davanti ad una strada trafficatissima sarebbe diventato per qualche ora l’epicentro di una lotta?

Qualcuno ci ha creduto, altri si sono addirittura sorpresi del risultato raggiunto, ma la festa del presidio No discarica Divino Amore ha fatto centro. Centinaia di persone sono giunte in questo luogo, come tanti altri in questa penisola costellata da vertenze di ogni tipo, che di fatto crea una linea di confine tra i campi arati e i greggi di pecore che li attraversano e il sito dell’Ecofer, che per molti, con i suoi scarti nocivi non dovrebbe neppure esistere. Insomma, sembra di assistere ad una sorta di scontro tra sana tradizione contadina e consumismo sfrenato che la globalizzazione ci ha regalato con tutte le conseguenze drammatiche che ne derivano, tra strati di coscienza attiva e ottusità politiche.
Eppure, la resa è lontana, quando si crede nella giusta causa. E questo succede dappertutto, specie quando si tenta di difendere un qualsiasi luogo dallo sfregio ambientale.
Uomini, donne, bambini, anziani  non hanno voluto mancare a questo incontro per esprimere, solo con la loro presenza, il dissenso contro la realizzazione di una discarica in una delle aree più pregiate della capitale, l’Agro Romano. Discarica, che da queste parti si materializza come una sconfitta da parte di quel ceto politico che rimanda da sempre i problemi dell’Italia, che non approfondisce mai le questioni, ignorando, spesso volutamente,  le istantze di una comunità che, invece, chiede di essere semplicemente ascoltata. Di essere parte attiva delle scelte importanti.
La festa così si fa spazio attraverso il tempo, si fa luogo dove la gente s’incontra e si racconta, s’intrecciano le storie attraverso una moltitudine di idee e pensieri che plasmano quella che gli psicologi anglo sassoni coniarono negli anni ’70 come identità sociale.
Essenziale menù, dove  la salsiccia alla brace è il piatto forte,  cotta e servita da volontari stanchi, ma consapevoli che essere parte di un gruppo significa partire per un viaggio condiviso il cui ritorno non sempre è prevedibile.
Giovanissimi virtuosi  che si esibiscono da un palco che, pur nella semplicità, ha garantito performance autentiche. Si va dalla canzone d’autore, al rock progressive dei Led Zeppelin passando per l’heavy metal che, con le chitarre distorte al massimo, fa vibrare il leggero ponentino che arriva dal mare.
E poi ci sono le persone. Tante persone, ognuna con la sua storia da sprigionare. Ognuno con la pazienza del saper ascoltare.
Alcuni anziani raccontano del legame con la loro terra, i giovanissimi parlano di speranze e progetti, tant’è che viene voglia di  mettersi in ascolto nella loro modulazione di frequenza.
Passano le ore e nessuno si accorge del miracolo compiuto. La lotta è andata oltre la lotta. La festa si è trasformata nel centro pulsante della vita, luogo di aggregazione, seppur disperato, nella sua battaglia, luogo di condivisione e di confronto, senza doppie finalità. Ognuno a modo suo è riuscito a lasciarsi alle spalle  quella che Pasolini definiva la grande omologazione, almeno quanto basta per cambiare la visione delle cose e allargare le coscienze, uscendo dal proprio individualismo a cui ci siamo abituati, quasi fosse un fenomeno inevitabile dettato dal progresso sociale.

Tempo fa un giovane poeta sardo scriveva questi  versi, che probabilmente ancora oggi valgono più di mille parole messe assieme e ci ricordano che un mondo migliore è sempre possibile: “Non c’è agire che non si manifesti nello spazio. lo spazio ci appartiene. Prendiamoci ciò che è nostro!  La terra, il nostro sangue rosso le nostre bandiere. E l’acqua da dipingere…  con il fuoco ardente delle nostre spontanee passioni. Ho avuto abbastanza  Per non dividerlo con voi… per non restituirlo!”

 

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