Il Berlusconi caduto. Storia semiseria di un leader mancato (I parte)

 

“L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze e il mio orizzonte”. Con queste parole, gonfie di retorica patriottarda, Silvio Berlusconi, la sera del 26 gennaio 1994 annunciava la sua “discesa in campo” in politica. Stava fondando un partito nuovo di zecca – “Forza Italia” – al quale già da un anno lavorava in gran segreto il suo principale collaboratore-sodale, Marcello Dell’Utri e un piccolo pool di intellettuali, fra i quali il politologo Giuliano Urbani e il filosofo Paolo Del Debbio.

Le ragioni di un impegno politico

Conoscendo il personaggio, molti già allora dubitarono subito delle sue buone intenzioni. Quel dichiarare il suo amore per il proprio Paese, le proprie speranze, erano assai lontane dalle vere intenzioni dell’imprenditore, che cercava nella politica una salvezza per le sue aziende e una copertura istituzionale, dopo la sparizione del suo vecchio dominus, Bettino Craxi, condannato al carcere e rifugiatosi da latitante in Tunisia.

In un libro in cui rievoca la sua avventura politica di quegli anni, Mario Segni,  considerato allora da molti un probabile leader, racconta che ebbe una convocazione dal magnate di Arcore prima della sua discesa in campo. Berlusconi gli propose la candidatura come premier a condizione che Segni avesse tenuto in debito conto gli interessi del Biscione, che avrebbe finanziato la campagna elettorale. L’uomo politico sardo, inventore della stagione referendaria, non accettò e probabilmente fu così che Berlusconi si convinse che l’unica persona adatta ad occupare le stanze di Palazzo Chigi fosse soltanto lui. D’altronde, in una serie di sondaggi commissionati in quel periodo, emergeva come Berlusconi fosse conosciuto dal 97 per cento degli italiani, mentre il Presidente del consiglio dell’epoca, Carlo Azeglio Ciampi, soltanto dal 51. Secondo i suoi criteri americaneggianti, non c’era alcun altra persona che potesse acciuffare il consenso elettorale, grazie anche al ruolo strategico del suo impero televisivo.

Le difficoltà dell’impero Fininvest

In realtà, c’erano ragioni molto meno nobili dell’amore verso il proprio Paese che avevano originato la “discesa in campo”. Nel 1993, il bilancio consolidato della “Fininvest” si era chiuso con un fatturato di 11.550 miliardi ma l’esposizione bancaria, cioè i debiti, aveva raggiunto i 4 mila miliardi di lire. Per avere un’idea di cosa volesse dire un debito così alto, sarà sufficiente considerare che, sempre nel 1993, il costo degli interessi (556 miliardi) era superiore all’utile operativo (500 miliardi). Il gruppo Fininvest, in altri termini, lavorava tutto l’anno soltanto per pagare l’enorme spesa per gli interessi. In quei drammatici mesi era la “Standa”, con il suo notevole cash flow, a finanziare gli stipendi dei dipendenti delle televisioni del Biscione, mentre i suoi fornitori erano pagati con 10-12 mesi di ritardo. La cura da cavallo che prima Franco Tatò (chiamato in qualità di amministratore delegato nel 1993), poi Ubaldo Livolsi dopo la rottura con Kaiser Franz, intrapresero sui conti delle sue aziende permisero a Berlusconi di risalire la china. Ma fondamentale fu la su ascesa politica, anche in qualità di capo dell’opposizione nel periodo dei primi governi di centro-sinistra (1996-2001).

L’enorme conflitto di interessi

Quando Berlusconi vinse le elezioni nel marzo del 1994 contro la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Ochetto, diventando primo ministro, in realtà vigeva una legge del 1957 che lo rendeva ineleggibile, in quanto concessionario di un bene pubblico come le frequenze radiotelevisive. Ma nessuno, nemmeno la sinistra, agitò il problema, salvo qualche sparuto ed emarginato oppositore. La realtà è che il Pds (allora si chiamava in questo modo il partito post-comunista, poi diventerà Ds, Democratici di sinistra e, infine, dopo la fusione con i cattolici della “Margherita”, Pd, Partito democratico) fu letteralmente stritolato da una sconfitta che non si attendeva, soprattutto in quelle proporzioni. Il meccanismo elettorale del “Mattarellum”, appena approvato, aveva fornito al nuovo partito di Berlusconi una vittoria clamorosa in tantissimi collegi considerati sicuri dal centro-sinistra. Nel Meridione la disfatta fu ancora più sensibile. Occhetto e la dirigenza post-comunista si trovarono di fronte un fenomeno del tutto nuovo, un imprenditore televisivo, che peraltro ai suoi esordi aveva anche vezzeggiato e considerato comunque un uomo della sinistra riformista, un socialista, per quanto craxiano, che dal nulla aveva spazzato via ogni categoria politica ed ogni previsione elettorale. Con Berlusconi si aprivano spazi inimmaginabili ad un’americanizzazione crescente del Paese, con una destra (il vecchio Movimento sociale italiano, sdoganato dal magnate brianzolo) che avrebbe potuto prendere nuovamente il sopravvento in Italia dopo la disastrosa esperienza fascista.

Ascesa e caduta

Si sa come andò a finire quel travagliato 1994. A dicembre la Lega decise di togliere la fiducia al Cavaliere, mentre quest’ultimo aveva ricevuto un’informazione di garanzia dai pubblici ministeri di Mani pulite, per quella che sarà soltanto la prima di una serie innumerevole di capi di imputazione dai quali il magnate di Arcore dovrà ripararsi con leggi ad personam. Da quel momento cominceranno gli strepiti berlusconiani contro i ribaltoni, contro una giustizia politicizzata e una sinistra che utilizza i vecchi metodi stalinisti per incarcerare gli oppositori. Campagne mediatiche al limite della follia se non fosse che cadono in un’Italia inguaribile nella sua scarsa informazione e nella sua irresistibile attrazione verso tutto ciò che puzza di reazione e di fascismo.

Il dado è però tratto. Berlusconi non tornerà al governo che sei anni dopo, quando nuovamente riuscirà ad intrappolare la Lega e il suo leader Bossi.

Il trionfo economico

Nonostante le sue accuse contro i comunisti, è un fatto che il suo impero economico è destinato a rinascere proprio durante i governi dell’Ulivo, a dimostrazione di come i suoi mirabolanti guaiti contro la sinistra fossero del tutto sconclusionati e mistificanti. In realtà, i dirigenti dell’Ulivo – e i post-comunisti in particolare – non hanno alcun interesse ad osteggiare le aziende del magnate di Arcore. Addirittura, durante la campagna elettorale del 2006, un Massimo D’Alema sgargiante si reca a Segrate per annunciare alle maestranze di Fininvest che le televisioni sono una “risorsa culturale per il Paese” e che nessun governo dell’Ulivo toccherà mai gli interessi consolidati delle reti del Biscione. Un modo come un altro per ribadire la legittimità di tre canali televisivi che la Corte Costituzionale ha giudicato eccessivamente lesivi della libera concorrenza e della libertà di manifestazione del pensiero. Il poco lungimirante D’Alema ritiene di poter manovrare in qualche modo il leader dell’opposizione, tanto da impedire qualsiasi legge seria sul conflitto di interessi (che ne avrebbe sterilizzato il potere politico), nonostante una maggioranza schiacciante che avrebbe visto partecipare anche Bossi che in quegli anni accusava Berlusconi delle peggiori nefandezze. Anzi, giunge ad accordarsi con il magnate di Arcore e istituire con lui la Bicamerale, con la quale intende riformare dalle fondamenta la Costituzione. Sarà un fallimento totale. Il Cavaliere farà finta di assecondarlo per poi far naufragare tutto poco prima delle conclusioni dei lavori.

Nel frattempo, nel luglio del 1996, ad elezioni oramai perse, Berlusconi risulta vincitore dell’operazione condotta da Livolsi e che ha consentito a Mediaset (la nuova società nata da una costola di Fininvest e che esprime il “core business”, cioè l’impero televisivo) di collocare sul mercato le sue azioni e al magnate di Arcore di incassare 4 mila miliardi di lire e di soddisfare le banche con azioni di nuova emissione, che risultano subito molto appetite dal mercato. Un’operazione economica molto intelligente, che consentirà a Berlusconi di uscire rafforzato anche politicamente e pronto a incrementare i suoi profitti una volta che riuscirà a conquistare nuovamente Palazzo Chigi. Ma per far questo ci vorrà un nuovo accordo con Umberto Bossi e la Lega. Un accordo che, come si vedrà, non è soltanto politico (I puntata-continua).

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