“Questa mattina, mi son svegliato e ho trovato…” non l’invasor, (non è l’attacco di Bella ciao), ma dalla finestra ho visto un branco di cinghiali che pascolava indisturbato fra le auto in sosta.
Periferia di Roma Nord, (ma non sperduta, non più di venti chilometri da piazza del Campidoglio) via Antonio Conti è città piena: alla fine della strada ha qui il suo capolinea l’autobus che collega la zona con il centro.
C’è la parrocchia dei Santi Pietro e Paolo, sotto un moderno campanile in mattoni rossi, una chiesa molto frequentata non solo nei giorni canonici, con sale per riunioni, uffici, abitazioni per sacerdoti di passaggio.
C’è l’ingresso dell’Olgiata, grande centro residenziale abitato da migliaia di persone; all’inizio della strada una scuola elementare con centinaia di scolari, una palestra con decine di sportivi della domenica, un supermercato sempre affollato, un centro commerciale fatto di negozi di tutti i generi.
Insomma, è città anche se non siamo in pieno centro storico.
Ma a giudicare dalla quotidiana presenza dei cinghiali, che ormai sono i nuovi cives romani, è come fossimo nel cuore della Maremma.
Gli automobilisti sono avvertiti: se investi un cinghiale nel migliore dei casi fai solo danni alla carrozzeria (di cui nessuno ti risarcisce) ma ti può anche succedere di perdere il controllo del volante e fare un incidente grave.
E non solo di notte: ormai li trovi sulle strade di Roma dall’alba al tramonto, in gruppi di tre o quattro individui neri come la pece, spesso con femmine seguite da una fila di cuccioli dal pelame a strisce, (visibilissimo, la natura ha fatto così perché da piccoli non si perdano nel folto dei boschi).
Ma oggi i boschi, i cinghiali di città, non li frequentano come hanno sempre fatto i loro antenati, perché è in città che trovano cibo in quantità, non nelle spopolate campagne di oggi.
E siamo al nocciolo della questione: come contenere l’invasione dei cinghiali nelle strade cittadine? Il rimedio ci sarebbe, solo che è di non facile attuazione: e cioè liberare le strade dai rifiuti che li attirano.
Come pure i gabbiani che hanno imparato ad aprire a colpi di becco i sacchi di plastica lasciati sui marciapiedi dagli esercizi per la ristorazione (trattorie, ristoranti, tavole calde, pizzerie, rosticcerie, McDonald’s e simili).
I cinghiali ormai sanno distinguere fra i cassonetti le diverse destinazioni: ignorano quelli per la carta, la plastica, il vetro, e danno la caccia a quelli dell’umido, dando se capita un’occhiata anche a quelli della raccolta differenziata, dove c’è sempre qualcosa di commestibile che il cittadino di pochi scrupoli ha buttato lì per ignoranza, pigrizia o inciviltà.
A queste condizioni come si può pretendere che i cinghiali non vengano a vivere in città? Le autorità si rimpallano il problema, ognuna respinge la propria responsabilità con il ritornello “Non è di mia competenza”.
Forse il Comune di Roma, città fra le più colpite, farebbe bene a istituire un “Assessorato ai cinghiali”, il cui titolare abbia gli stessi poteri di quello alla Sanità, o all’Edilizia o alla Viabilità.
Oppure costringere, prima con le buone poi con le cattive, i responsabili dell’Ama, l’azienda comunale che raccoglie i rifiuti, a prendere davvero in pugno la situazione e organizzarsi per eliminare gli abusi: fino ad arrivare al giorno in cui ad ogni sacchetto di rifiuti lasciato sulla strada corrisponda un cittadino colpito da una multa micidiale.
Oppure, e ci si conceda una battuta, affidare ufficialmente l’appalto della raccolta dei rifiuti direttamente ai cinghiali stessi, per l’occasione sindacalmente riuniti nell’Associnghiali.
E anche perché no? all’Assogabbiani, un sindacato che vanta milioni di iscritti, da quando la alata categoria ha scoperto che a Roma si mangia meglio e più variato di quanto offrano le desolate coste laziali (dove più di qualche pescetto striminzito non si rimedia).



