Edilizia. La difficile realtà dei lavoratori stranieri da VII rapporto Ires-Fillea

ROMA – Il VII Rapporto Fillea – Ires Cgil sui lavoratori immigrati nel settore delle costruzioni, presentato ieri mattina nell’ambito dell’assemblea nazionale, si arricchisce quest’anno di un nuovo capitolo.

La vera novità sta tutta nella somministrazione di un questionario ad un campione di lavoratori e lavoratrici con l’obiettivo di indagare l’impatto della crisi – da un lato – e la qualificazione del lavoro – dall’altro – attraverso la percezione e la testimonianza diretta delle maestranze. Le risposte da parte di cento lavoratori stranieri arricchiscono il dibattito di ulteriori spunti di riflessione. Inevitabilmente, la crisi economica odierna mette a rischio la posizione lavorativa di tantissimi operai stranieri. Soggetti, loro malgrado, a finire per primi sotto la scure del ricatto del datore di lavoro. In questo modo, non avendo molte altre prospettive, finiscono per cedere alle richieste dei “padroni” accettando di lavorare anche in condizioni non proprio agiate. Caricandosi sulle spalle, in molti casi, orari di lavoro estremamente dilatati. Dalle risposte al questionario, emerge in primo luogo che le paure maggiori sono quelle di perdere il lavoro o di lavorare in condizioni ulteriormente difficili e pericolose.

Altissimo anche il timore di essere costretti a lavorare in nero. Alla base, la solita comprensibile presa d’atto di sentirsi più ricattabili. Rispetto agli effetti della crisi sul lavoro, invece, la maggior parte degli intervistati ha risposto dicendo che le retribuzioni si sono abbassate e che le condizioni di lavoro sono peggiorate. Con crescita di lavoro nero e allungamento degli orari di lavoro. La crisi ha prodotto, di conseguenza, sostanziali cambiamenti nella vita dei lavoratori migranti. In primis, la riduzione dei consumi, ma spesso anche il cambio nel progetto migratorio con l’ipotesi di emigrare verso altre destinazioni oppure di fare ritorno al paese d’origine. Per ciò che attiene la formazione, poi, a conferma delle difficoltà di avanzamento nella carriera, l’80% degli intervistati sono lavoratori non specializzati di primo o secondo livello. Nonostante l’anzianità media lavorativa sia di circa 9 anni. Oltre il 76% dichiara di avere un’esigenza formativa, ma mentre il 16% viene formato in azienda, gli altri per la maggior parte dicono di “arrangiarsi” da soli o di non avere tempo a disposizione. Alla domanda “nel riconoscere il tuo lavoro, quale ritieni che per la tua azienda sia l’elemento prioritario?”, solo il 9% ha risposto “il merito” mentre il 51% ha risposto “la fatica” e il 40% “la disponibilità ad essere flessibile”. Infine, più del 65% degli intervistati dichiara di prendere una parte dello stipendio “fuori busta”.  Se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, è altrettanto vero che la persona deve prima di tutto essere considerata tale. Senza differenza di sesso, razza, religione. E’ una condizione imprescindibile. E’ fin troppo banale dirlo. Ad oggi, tuttavia, occorre ancora ripeterlo troppo spesso. E già questo dovrebbe rendere sufficientemente chiara la misura dello stato non proprio così evoluto della nostra sacra democrazia.

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