Pirateria somala: ‘Savina Caylyn’ e ‘Rosalia D’Amato’ navi italiane in mano pirati

ROMA – Attualmente in mano ai pirati somali ci sono 2 navi italiane, la petroliera ‘Savina Caylyn’ e la motonave ‘Rosalia D’Amato’. Navi che sono di proprietà della compagnia di navigazione F.lli D’Amato di Napoli (che fanno capo allo stesso gruppo armatoriale). Insieme alle due imbarcazioni, i predoni del mare, hanno catturato anche, rispettivamente 22 membri dell’equipaggio, 17 indiani e 5 italiani, tre campani, un triestino e uno di Gaeta e 21 membri dell’equipaggio, 15 filippini e 6 italiani, due siciliani e quattro campani.

In tutto sono 11 i marittimi italiani prigionieri in Somalia. In Italia l’informazione fornita dai media nazionali sul fenomeno della pirateria marittima al largo della Somalia è stata finora piuttosto selettiva e a tempo. A volte addirittura anche sbagliando tempi e modi di parlarne.
Perché è chiaro che bisogna capire se lo è o meno il momento di parlarne.
Ancor peggio è quando alcuni media trattano il fenomeno solo quando coinvolge marittimi italiani e navi battenti il tricolore. Per non parlare di quando la ‘gestione’ dell’argomento viene affidata a redattori a ‘digiuno’ sul fenomeno, legato alle vicende di cui si occupano. Purtroppo in Italia funziona in questo modo.
E’ indescrivibile l’esperienza che vivono i marittimi, equipaggio di una nave catturata, quando cadono ‘prigionieri’ nelle mani dei predoni del mare. E’ chiaro che chi cade nelle mani dei pirati somali è un ostaggio e come tale viene trattato. Una terribile esperienza che segna la vita di molti di loro specie emotivamente. Questo, soprattutto per il fatto che i marittimi catturati sono lavoratori e non sono soldati e pertanto, non sono preparati a subire le angherie e le privazioni che invece, subiscono essendo prigionieri. Però, è bene sapere che l’equipaggio preso in ostaggio ha, per i pirati somali, un valore fondamentale: quello molto venale di valere un mucchio di bei bigliettoni verdi. Per intenderci quelli pagati come riscatto per ottenere il loro rilascio. Riscatti che stanno diventando sempre più alti e che variano, secondo il tipo di preda.

Nella totalità dei casi, a pagare sono o l’armatore oppure il governo del Paese di provenienza di nave e marittimi. Statisticamente, numeri ben consolidati negli anni, la cifra in media come contropartita per un mercantile, è di 4/5 mln di dollari e quella per una petroliera si aggira intorno ai 9 mln di dollari. Una contropartita a cui finora mai i pirati somali hanno rinunciato, anche a costo di trattenere in ostaggio nave e marittimi per mesi.

Il loro numero non è quantificabile, ma sono almeno 45 le navi e 700 i marittimi, di diversa nazionalità, prigionieri in Somalia. Solo il 6 per cento di essi provengono da Paesi OCSE, gli altri da Paesi in via di sviluppo come India, Ghana, Sudan, Pakistan, Filippine e Yemen. Inoltre, oltre ad essere fonte di guadagno, hanno anche un altro valore. Sono il loro scudo contro eventuali blitz militari. Per cui ai pirati somali non conviene far del male ai lavoratori del mare che trattengono in ostaggio. Far del male al marittimo preso prigioniero equivarrebbe per loro soprattutto perdere ogni possibilità di intascare un riscatto. Come anche equivarrebbe a perdere gli iniziali 40mila dollari ‘investiti’ nel compiere l’attacco alla nave. Si tratta di una piccola somma che viene anticipata e che serve per pagare le prime spese, attrezzatura, carburante ed eventuale passaggio su una nave madre che li porta in profondità nell’Oceano Indiano dove poi, colpiscono.

 

La Pirateria marittima è un fenomeno che ha trovato campo libero nelle acque al largo della Somalia. Un mare ben presto ribattezzato ‘il mare dei pirati’ dove le varie gang del mare, almeno sette, composte in tutto da un migliaio di pirati, hanno potuto condurre la loro attività criminali praticamente indisturbate. Queste gang hanno approfittato soprattutto della debolezza delle istituzioni governative somale, ma anche della poca attenzione data, almeno all’inizio, al fenomeno dalla comunità internazionale. Un fenomeno che nel giro di circa sette anni ha trasformato la Somalia nel cuore della pirateria mondiale. Un primato raggiunto tranquillamente nonostante nella zona, dal 2008, siano schierate numerose navi da guerra in chiave anti pirateria che operano sia sotto bandiera nazionale sia integrate all’interno di dispositivi internazionali ed europei. Navi che sono anche pronte al blitz militare per salvare gli uomini tenuti in ostaggio dai predoni del mare. Quello della pirateria è un fenomeno che ha fatto emergere anche un altro inquietante timore. Sono circa 21mila le navi che ogni anno transitano nel Golfo di Aden, e altre 10mila quelle nell’Oceano Indiano.

 

Percorrono le vie marittime attraverso cui transitano la gran parte delle forniture energetiche mondiali e buona parte del commercio marittimo tra Asia ed Europa. Gli assalti dei pirati somali rischiano di avere pesanti ripercussioni sulle forniture di greggio a livello internazionale. Un rischio reso molto concreto dopo gli ultimi colpi messi a segno dai moderni filibustieri con la cattura di due superpetroliere, l’italiana ‘Savina Caylyn’ e la greca ‘SL Irene’. Entrambe trasportavano un grosso quantitativo di greggio. Per meglio rendere l’idea, il carico della nave greca era pari al 20 per cento delle importazioni giornaliere di greggio degli Stati Uniti. Inoltre, da quando il fenomeno della pirateria ha raggiunto gli attuali livelli i mercantili di molti Paesi viaggiano in quel mare affidandosi sempre di più a scorte armate per evitare gli assalti dei pirati. Tutto ciò però, ha finito solo per fare innalzare il livello di violenza e nei soli primi cinque mesi del 2011 sono già rimasti uccisi in scontri a fuoco almeno 60 pirati e 4 marittimi. L’ultimo il capitano di un peschereccio taiwanese finito nel mezzo del fuoco incrociato tra pirati somali e marinai della marina militare USA lo scorso 10 maggio. L’episodio ha scatenato un forte dibattito a riguardo del ricorso ‘facile’ all’uso delle armi da parte dei militari.

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