ROMA – La primavera araba, e non solo per motivi climatici, sembra ormai lontana. Ma sarebbe meglio dire, l’idea delle rivoluzioni arabe, come le chiamano i diretti interessati, che ci siamo fatta in Europa e nel mondo cosiddetto “occidentale”.
Un’idea un po’ romantica di giovani che lottano per la loro emancipazione sociale e che chiedono progresso e benessere.
Non che ciò non sia del tutto vero, ma lo scenario – come sempre succede – è molto più complesso. E la sua complessità emerge con estrema drammaticità nei rigurgiti di violenza degli ultimi giorni, di cui hanno fatto le spese, talvolta in termini di vite umane, le sedi di rappresentanza diplomatica dei Paesi occidentali – Stati Uniti in primis – nel mondo arabo.
Sulla strumentalità delle cause della protesta – un film stavolta, delle vignette in passato – non è indispensabile soffermarsi, in quanto appare più che acquisita e che resta solo come interrogativo per chi ne è stato l’autore.
E’ invece su quella brace ardente sotto la cenere, pronta a infiammarsi al minimo soffio di vento che vale pena di riflettere. Ad oltre un anno dall’esplosione della primavera araba, ci troviamo di fronte a uno scenario ancora molto fluido ma già notevolmente mutato. Una serie di regimi, in Stati popolosi e importanti, è stata rovesciata e nuovi poteri sono saliti alla ribalta.
Dal nostro osservatorio euro-occidentale spesso si perde il rilievo di tali cambiamenti ma soprattutto le loro caratteristiche. Infatti, dopo aver sostenuto in maniera assolutamente determinante con risorse economiche, militari e relazioni privilegiate una lunga serie di dittatori – Ben Alì in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia, (senza dimenticare Saddam Hussein in Irak) per citare i più noti – abbiamo plaudito al loro rovesciamento, in ogni caso violento, in nome del cambiamento. Se però prima era lecito avere molti dubbi sui nostri “amici dittatori”, ci siamo accorti che la primavera araba ha comportato ovunque una svolta, per così dire, confessionale?
Le transizioni politiche nei Paesi arabi dove hanno avuto luogo le rivoluzioni degli ultimi 18-24 mesi – ad eccezione della Libia, dove la religione è rimasta un collante fondamentale nelle forze politiche – hanno portato al potere partiti di matrice islamica che hanno sconfitto il precedente regime, campione di laicità. Che poi è la medesima tensione tra il dittatore Assad e le forze ribelli che sta attualmente lacerando la Siria.
Ovviamente non vi è alcun giudizio di valore nel definire una forza politica di tipo confessionale, in questo caso della religione più diffusa, quella musulmana. E’ soltanto un dato di fatto di cui tener conto e che cozza con ciò che la politica estera euro-occidentale classicamente si pone come obiettivo per la sua idea di progresso del mondo arabo.
Le proteste e gli scontri di questi giorni testimoniano inoltre che i processi di transizione democratica nei Paesi arabi, contrariamente a quanto frettolosamente dichiarato dai nostri leader politici, sono tutti da completare e da assestare. Anzi, senza dubbio c’è un controllo territoriale che spesso ancora sfugge alle attuali forze al potere.
I rigurgiti di violenza dimostrano che se da un lato gli scontri tra le elite di potere non sono ancora terminati, dall’altro l’auspicato miglioramento sociale non ha toccato la popolazione. Conflitti interni si mischiano dunque a tensioni internazionali, nella speranza che nessuno cavalchi l’onda del presunto scontro di civiltà per rafforzare le proprie posizioni interne.
A discapito della stabilità internazionale e della vita umana.