«Oggi molti seri analisti sostengono che l’austerità fiscale in un’economia depressa ha probabilmente effetti autodistruttivi, in quanto comprime l’economia e penalizza i redditi a lungo termine; e quindi non solo non risolve i problemi legati al debito, ma al contrario li aggrava»
[Paul Krugman]
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Il prodotto interno lordo non solo ristagna ma diminuisce oramai nell’area europea dal 2008. Per l’Italia, l’Unione europea prevede un calo dell’1,3% nel corrente anno, terzo peggior risultato dopo il Portogallo (-3,3%) e la Grecia(-4,4%).
I tassi di disoccupazione sono tendenzialmente progressivi, Paesi come l’Irlanda hanno raggiunto il 15% di inoccupati, in Spagna addirittura il 24,4% (dati di questo aprile), in Gran Bretagna l’8,3%, in Italia la disoccupazione (che aggiunge a chi cerca lavoro quelli che hanno smesso pur essendo inoccupati) sta superando il 9,2% (secondo altre stime sarebbe oltre il 10%).
Con riferimento specifico al caso italiano, la forbice fra retribuzioni reali (cioè tenendo conto il loro potere di acquisto) e inflazione sta aumentando, determinando una nuova contrazione dei consumi e quindi della domanda interna, mentre quella estera, cioè le esportazioni, non registra numeri in grado di sostenere la produzione italiana (nel mese di febbraio di quest’anno il saldo fra esportazioni e importazioni è stato anzi di segno negativo).
La crisi delle imprese
Nel 2011 sono fallite 11.625 imprese, con un aumento di oltre il 13% rispetto all’anno precedente e la perdita di 50 mila posti di lavoro.
Ma per comprendere veramente la situazione macroeconomica delle imprese italiane, è necessario considerare i dati numerici relativi agli investimenti fissi lordi. Secondo la definizione Istat, consolidata nell’ambito del sistema Sec (Sistema europeo dei conti), sono tali le acquisizioni (al netto delle cessioni) di capitale fisso effettuate dai produttori residenti ai quali si devono aggiungere gli incrementi di valore dei beni materiali non prodotti. Dato che la massima parte del valore degli investimenti fissi lordi misura il complesso dei beni (macchinari, scorte di magazzino, ecc.) con i quali le imprese producono merci e servizi, il loro andamento è particolarmente significativo per comprendere lo stato di salute di un sistema economico. Ebbene, secondo dati Istat dal primo trimestre 2008 al quarto trimestre del 2011, tale valore è diminuito di oltre il 15%, passando da78,5 a 66 miliardi di euro (a prezzi commisurati a quelli del 2005). Una perdita così accentuata degli investimenti fissi lordi significa un effetti demoltiplicativo molto rilevante, se si tiene conto del rapporto fra capitale e prodotto e quindi conseguenze ulteriori sulla formazione della ricchezza nazionale.
La crisi fiscale dello Stato
Come era stato previsto da numerosi economisti marxisti negli anni ’70 del secolo scorso (oggi considerati, a torto, del tutto superati), il modello capitalistico ha originato la più grave crisi fiscale, dopo quella degli anni ’30 in America e in Europa. Non solo, ma calando il prodotto interno lordo, cresce la pressione fiscale complessiva (data dal rapporto fra tributi complessivi e Pil), aggiungendosi come effetto depressivo sul reddito dei cittadini. Secondo la curva di Laffer, osannata dal pensiero unico neo-liberista, un aumento della pressione fiscale (cioè, in sostanza, delle aliquote impositive sotto forma di un maggior numero di imposte e oneri parafiscali) determina una progressiva caduta del gettito. In particolare, quest’ultimo si viene a determinare in conseguenza di un minor livello di attività economica, che ha effetti sul gettito delle imposte indirette. Ad esempio, nel caso dei carburanti, ad un aumento delle accise è corrisposto una diminuzione, in alcuni casi anche molto sensibile, degli acquisti, che ha inciso negativamente sul gettito atteso.
Il fallimento delle politiche di austerità
Secondo il CEBR (Centre for Economics and Business Research), la politica di austerità del governo Monti potrebbe portare l’Italia al default. Secondo gli analisi del CEBR il peso del debito sovrano graverà nel 2017 per il 150% del Pil, con titoli pubblici a dieci anni che supereranno la soglia del 6% del tasso di interesse.
Nonostante questi dati di tutta evidenza, in Italia, così come in Spagna, in Portogallo e in Grecia, l’Unione europea e la Banca centrale continuano a imporre politiche di tagli alla spesa di forte contenimento del deficit, addirittura imponendo il pareggio di bilancio in Costituzione (un’idea demenziale) e un accordo capestro quale il cosiddetto “fiscal compact”. Per poter uscire dalla crisi economica sarebbe necessario un allentamento della morsa dei mercati finanziari (ad esempio, con la sospensione delle speculazioni sui prodotto speculativi e tossici, come i derivati e titoli creati con le cartolarizzazioni) e una deroga ai trattati di Maastricht dal punto di vista del deficit annuale di bilancio, con la rapida utilizzazione degli eurobond, cioè di titoli pubblici europei con i quali finanziare opere strutturali in grado di rilanciare occupazione e reddito. Insomma, tornare al keynesismo che ha apportato ricchezza e prosperità all’Europa ed emarginare il pensiero neo-liberista. Ma questa volta per sempre.