Crisi finanziaria. Gli errori capitali di Giulio Tremonti

Gli errori più gravi del ministro economico italiano in otto anni di gestione del suo dicastero. Una politica senza alcuna vera logica economica che sta mettendo a rischio le sorti del Paese

ROMA – Ieri soltanto il massiccio ordine di acquisto di titoli del debito sovrano italiano da parte della Bce ha evitato un altro aumento degli spread rispetto ai bund tedeschi. Come noto, l’aumento di questo differenziale si traduce in un correlativo aumento dei tassi di rendimento dei titoli italiani che, per essere collocati e venduti sul mercato, devono offrire una remunerazione più alta di quelli tedeschi. Conseguentemente, ad ogni aumento del differenziale corrisponde una spesa maggiore dello Stato italiano nella restituzione del capitale e degli interessi ai sottoscrittori (circa 10 miliardi di euro in più).

PRIMO ERRORE. Cerchiamo di ragionare sull’aumento di questo differenziale per comprendere da cosa derivi. I gerarchi del centro-destra si ostinano a ripetere – Berlusconi in testa e in modo alquanto ridicolo – che non c’è alcun nesso fra l’aumento dello spread e la questione politica. Ma qualsiasi osservatore, anche il più parziale, non può ammettere una tale spiegazione. Se le contrattazioni di borsa possono soltanto in parte essere influenzate dalle debolezze strutturali di un governo nazionale, il differenziale sui titoli del debito sovrano fra Italia e Germania deriva essenzialmente dalla scarsa fiducia nelle capacità dei governanti di gestire la crisi finanziaria e di apprestarne gli strumenti idonei per arginarla. Ne è una dimostrazione la lettera scritta da Trichet e Mario Draghi a Palazzo Chigi che, cancellando con un tratto di penna la diluizione dei provvedimenti al 2014 per una questione essenzialmente elettorale, ha messo a nudo l’inconsistenza delle decisioni adottate da Berlusconi e Tremonti.

SECONDO ERRORE. Il secondo errore di Giulio Tremonti e del governo Berlusconi è in realtà una sintesi di almeno otto anni di scriteriata politica economica, iniziata nel 2001. Tremonti ha traguardato la gestione economica del nostro Paese con le sue spesse lenti da avvocato tributarista, sfuggendogli i problemi essenziali del mancato sviluppo italiano. I suoi primi atti di una qualche rilevanza hanno riguardato il rafforzamento delle possibilità offerte agli evasori fiscali, con strumenti quali i condoni e lo scudo. Ciò ha innestato un movimento esattamente contrario a quel “patto di fedeltà fiscale” sulle quali le coalizioni di centro-sinistra, con il ministro Vincenzo Visco, avevano basato la loro azione per recuperare parte del gettito fiscale. I dati a supporto di tali evidenze sono numerosi, fra i quali una diminuzione del gettito Iva superiore, in percentuale, alla diminuzione degli scambi, cioè dei consumi, segno inequivocabile che gli operatori sono ricorsi all’occultamento dei ricavi, evadendo l’imposta indiretta. A ciò si deve aggiungere il pressoché totale immobilismo in altri settori (reiterazione degli incentivi per le imprese che investono in tecnologia, investimenti nell’istruzione e nella formazione, riforma del mercato del lavoro con un allargamento delle tutele, magari in modo progressivo come presupponeva un dimenticato progetto di riforma di Pietro Ichino e Tito Boeri, incentivi per accrescere la dimensione media delle imprese, che in Italia sono drammaticamente piccole, sulla via intrapresa da Giuliano Amato nei primi anni Novanta in favore degli istituti bancari) e, al contrario, un attivismo smodato in altri (un preciso disegno tendente a colpire salari e stipendi dei lavoratori dipendenti, soprattutto del settore pubblico, nella errata convinzione che ciò possa in qualche misterioso modo aumentarne la produttività e il rendimento, assenza totale di strumenti per alleggerirne il carico fiscale, deplorevoli azioni finalizzate a dividere il fronte sindacale con un’accentuata tendenza a vanificare la concertazione).

TERZO ERRORE. In questo modo la politica economica tremontiana (se così può definirsi un complesso di provvedimenti senza una vera logica economica) ha finito per indebolire la domanda aggregata e, soprattutto i consumi, lasciando pressoché inalterata la spesa pubblica, anzi facendola lievitare, ed osservando senza fiatare il progressivo accentuarsi della corruzione, che ha contribuito in modo determinante al mancato risanamento. Proprio dal lato della spesa, Tremonti ha compiuto l’errore più grave, quello dei tagli lineari, cioè diminuzioni di spesa senza alcun rapporto con la loro efficienza e produttività. Anche in questo caso, ha voluto fare esattamente il contrario rispetto al suo compianto predecessore Tommaso Padoa Schioppa, il quale orientò i tagli in base al principio, già inaugurato da Carlo Azeglio Ciampi a partire dal suo governo nel 1993, della spending review, un’analisi funzionale delle voci di bilancio in base alla loro produttività a breve e medio periodo.

Impossibile ritenere che la profonda sfiducia dei mercati di questi giorni non abbia a che fare con questi errori di gestione, dovuti al fatto che ad occupare la poltrona di via XX settembre ci sia da molto tempo la persona sbagliata al posto sbagliato.

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