ROMA – Chi ancora spera che da un summit internazionale sull’ambiente possa uscire un programma d’azione forse è appena sbarcato sulla Terra da un altro pianeta. Generalmente questi incontri tra nazioni finiscono con affermazioni di principio generiche, o al massimo con accordi comuni che non verranno mai rispettati.
Le nazioni li siglano per fare bella figura, senza poi sforzarsi troppo nell’applicarli. Ma ormai si è arrivati al punto in cui un tale “greenwashing”, ossia una lavata di coscienza in salsa ambientalista, non è ritenuta neanche più necessaria con i propri cittadini. Sarà il clima di crisi generale in cui la popolazione mondiale è stata catapultata, sarà la crescita esponenziale di nuove economie come la Cina, l’India, le tigri asiatiche da tenere a bada in “graduatoria”, sarà che un po’ ci sentiamo fuori dal tempo limite consentito dal pianeta per virare verso la sostenibilità, fatto sta che il summit Rio+20 è stato dal principio ancora più deludente di ciò che prevedevano le basse aspettative che lo accompagnavano.
La Conferenza sulla sostenibilità ambientale si tiene in questi giorni in Brasile, a 20 anni dal primo incontro, nel 1992, che segnò tra l’altro la nascita della Convenzione internazionale sulla biodiversità. La bozza su cui i capi di Stato hanno iniziato a lavorare è il prodotto di una estenuante settimana di trattative, dimezzato rispetto alla sua versione originale, per lasciare solo la parte su cui tutti si trovavano d’accordo: 49 pagine dal titolo “Il futuro che vogliamo” senza cifre o obiettivi specifici e con tanti saluti al prossimo incontro. Lo stesso segretario nazionale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon non ha potuto nascondere: “Personalmente, mi aspettavo un documento finale più ambizioso”. Ma d’altra parte l’assenza, ingiustificata, degli Stati Uniti e della Germania avrebbe reso poco significativa qualsiasi proposta di natura economica. In compenso l’incontro ha visto la partecipazione di Muhamud Ahmadinejad, reduce dall’incontro internazionale sul nucleare in Russia, anche esso inconcludente. Nonché, tra i più attesi, il neopresidente francese Hollande e il premier cinese Jiabao.
Il Ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha voluto comunque spendere qualche parola ottimista sul convegno: da un lato ha sottolineato l’importanza del ruolo ricoperto dal nostro Paese come mediatore, in virtù degli speciali legami economici sviluppati col Brasile; dall’altro ha dato grande enfasi all’inserimento della green economy nel documento. E tuttavia il dibattito su tale concetto dei giorni precedenti ha evidenziato la mancanza di una visione comune sullo stesso, dividendo chi parla di regole precise da imporre allo sviluppo e chi si accontenta di obiettivi generici.
Ma c’è chi dietro tale etichetta vede il pericolo maggiore di questo summit: l’entrata prepotente al suo interno delle lobby economiche internazionali e il rinsaldarsi del loro legame con i leader politici, in nome, appunto, di un “greenwashing” generale. A sostenerlo è il Corporate Europe Observatory (Ceo), presente a Rio per monitorare le multinazionali e convinto che “I gruppi delle corporations, potenti governi e blocchi di Paesi come l’Unione Europea hanno promosso il concetto di green economy come una soluzione ai gravi problemi ambientali e sociali che abbiamo di fronte. Anche se questo potrebbe sembrare una cosa buona, le proposte sul tavolo vengono utilizzate per legittimare l’impossessamento delle risorse da parte dei ricchi, che minaccia l’accesso alle risorse della terra, dell’acqua e naturali da parte dei poveri del mondo”.
Ed infatti gruppi economici come l’International Chamber of Commerce (Icc) e il World Business Council for sustainable development (Wbcsd) sono a Rio, ed hanno partecipato alle riunioni preparatorie nonché organizzato molti eventi interni al summit, quali il Corporate Sustainability Forum, il World Green Summit e il Business day. Nella conferenza del 1992 Stephan Schmidheney, fondatore del Wbcsd, fece un bel discorso sulla “nuova e coraggiosa” partnership tra imprese e governi nel definire lo sviluppo. Oggi non è presente a Rio perché condannato a 16 anni di carcere per la morte da inquinamento da amianto che le sue imprese hanno procurato a 2 mila persone. E sono altre le imprese di dubbio profilo ambientalista, quali Bp, Shell, Dow, Basf, Eskom, Monsanto, Coca Cola, Suez che siedono oggi accanto ai leader mondiali. Principale ambizione di Rio+20 sembrerebbe allora, sempre secondo il Ceo, quella di “approfondire ulteriormente la stretta collaborazione fra big business e policy makers, con un ruolo più forte per le lobby imprenditoriali negli accordi multilaterali come la Convention on biodiversity e i negoziati sul clima dell’Onu”. Tale stretta collaborazione tra corporazioni e Onu è stata criticata anche da altre Ong ambientaliste, sociali e di sindacati, che si sono riunite in 200 alla Cupola dos Povos, in un contro vertice a cui hanno partecipato 30 mila persone. Durante questo incontro ambientalisti, popoli indigeni e reti sociali hanno posto particolare attenzione al pericolo del land grabbing nei paesi in via di sviluppo da parte delle grandi corporazioni, generato soprattutto dalla crescente produzione di biocarburanti. Oggi la paura è che Rio+20 allontani ulteriormente gli organismi internazionali dalle persone, nell’affrontare la crisi sociale ed ambientale, in nome di un’economia che risponde sempre più solo a sé stessa..