Liberalizzazioni. Le corporazioni fissano la tariffa ma la scambiano per “prezzo di mercato”

 

Il costo dei servizi professionali e dei settori protetti è oramai insopportabile per il consumatore. L’Unione europea è pronta a sanzionarci per le mancate liberalizzazioni degli ordini professionali

Molte delle mistificazioni correnti distribuite a piene mani dalle corporazioni professionali che impediscono le liberalizzazioni in Italia ruotano attorno al concetto di “prezzo”. Sfruttando la mancanza di informazione economica degli italiani, lo scambiano con le “tariffe”, cercando di dimostrare che soltanto affidando a loro la determinazione del valore della prestazione ai clienti si può assicurare un servizio di qualità.

Innanzitutto il “prezzo” è diverso dalla “tariffa”. Il primo si forma in seguito all’incontro fra la curva di domanda e la curva dell’offerta in un libero mercato. In quel punto, il prezzo assicura la vendita di tutte le merci o i servizi offerti; qualsiasi altri punto è definito dagli economisti come inefficiente, in quanto non tutta l’offerta sarà effettivamente scambiata dagli individui.

La “tariffa” è un valore economico non stabilito dal mercato ma dallo Stato o da una corporazione privata che produce in regime di monopolio. Quando a stabilirlo è lo Stato, esso segue motivazioni di tipo sociale, offrendo ad esempio energia elettrica al costo di produzione (o anche a meno) alle famiglie disagiate. Quando a stabilirle è una corporazione, cioè un ordine professionale, non c’è alcuna motivazione sociale ma soltanto l’appropriazione del massimo profitto possibile.

Ciò che può sfuggire al cittadino comune, cui non è richiesta obbligatoriamente una preparazione economica, è che il membro di una corporazione riesce a monetizzare un extra-profitto (che alcuni chiamano, anche se non correttamente, “rendita di posizione”) dall’offerta dei suoi servizi soltanto perché il consumatore è costretto a rivolgersi a lui. Un esempio di questo tipo si ha con gli “Autogrill” sulle autostrade di proprietà privata. Come tutti sanno, i prezzi praticati da questi grandi ristoranti-bar-empori sono, mediamente, superiori del 50% rispetto agli altri esercizi non collocati sull’autostrada. L’automobilista, se vuole prendere un caffè o mangiare qualcosa, è costretto a sopportare un prezzo superiore perché non può rivolgersi ad altro produttore. La stessa cosa accade con il cittadino che deve acquistare una casa. La legge non impone la stipula di un atto pubblico ma soltanto di un atto scritto (quindi, sarebbe sufficiente una semplice scrittura privata fra venditore e acquirente) ma tutti, per sicurezza, si rivolgono ad uno studio notarile di fiducia, che poi fatturerà il servizio, comprensivo di oneri e tasse (imposta di registro per l’acquirente). Ora, gli ordini, furbescamente, impongono una tariffa minima ma non una tariffa massima. Ciò significa che il professionista può chiedere praticamente quello che vuole al cliente. È pur vero che se quest’ultimo non è soddisfatto, potrà rivolgersi agli studi concorrenti presenti nella zona (il cui numero è però deciso dalla corporazione notarile, non dal mercato, essendo quindi un “numerus clausus”), magari riuscirà a rimediare uno sconticino ma difficilmente al di sotto della tariffa minima, anche perché quest’ultima possibilità è vietata dalle norme delle corporazioni e sanzionate con l’annullamento della fattura e perfino il ritiro dei sigilli.

Da quanto abbiamo detto appare chiaro che la tariffa è qualcosa di molto diverso dal prezzo, eppure moltissimi professionisti, quando sono impegnati nella difesa dei loro interessi, parlano di “prezzi di mercato” che, nel loro caso, non esistono perché esistono soltanto tariffe con l’incorporazione dell’extra-profitto (o rendita di posizione).

Un caso di scuola è quello del’architetto romano che denuncia “Group on” per concorrenza sleale (altra ridicola mistificazione, il richiamo ad una condizione di mercato che non esiste nelle professioni) per aver pubblicizzato l’offerta di un collega per il rilascio di certificazioni energetiche (oggi obbligatorie per qualsiasi immobile) ad un prezzo di 60 euro, quando il “prezzo di mercato” è di 500 euro. In realtà, i 500 euro non sono un “prezzo di mercato” ma il valore economico imposto alla prestazione dalla corporazione professionale e poi contrabbandata al pubblico per “prezzo di mercato”.

Il costo dei servizi professionali, svolti in condizioni di monopolio legale (massimamente, quello dei notai ai quali lo Stato cede perfino la funzione di gabellieri) e altri settori protetti per legge contribuiscono all’aumento dell’inflazione per circa il 65% e rappresentano un onere quasi insostenibile per la maggior parte delle famiglie italiane. La difesa politica di queste corporazioni, fatta in massima parte dal berlusconismo negli ultimi venti anni, rappresenta un costo sociale molto alto ed oramai ingiustificabile. Perfino l’Unione europea è pronta a sollevare sanzioni contro il sistema italiano, fra tutti, quello che più ricorda l’epoca medievale.

 

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