Ordini professionali. Sono pochi e contro il mercato. Ci rimettono i consumatori (I)

Due sono gli elementi principali che caratterizzano negativamente gli ordini professionali: sono pochi rispetto alle professioni esistenti e limitano gli accessi. Vediamo perché non possono continuare ad esistere in un’economia moderna

Se un committente ha bisogno di un consulente informatico, ne chiama uno e lo mette alla prova. Contratta un’ipotesi di accordo, con il compenso pattuito. Prima di fornirgli l’incarico, il committente si è guardata attorno, ha chiesto informazioni, si è fatta un’idea del costo del servizio. Il consulente può sfruttare il suo curriculum, fare sconti rispetto alla concorrenza, offrire servizi aggiuntivi, farsi pubblicità. Lo stesso accade con un consulente finanziario (di solito legato ad una banca), un archivista, uno statistico, un riorganizzatore aziendale, un fotografo, un grafico, un infermiere o un fisioterapista. Producono servizi specializzati e sono accomunati dal fatto che non esiste un loro ordine professionale che fissa le tariffe minime e vidima le loro parcelle. Agiscono in un libero mercato concorrenziale, dove ciò che conta è la bravura, i meriti acquisiti, lo studio e la capacità di tenere bassi i prezzi, o perlomeno a livello della concorrenza. Sono particolarmente esposti ai cattivi venti: se aumentano di numero e la domanda non è cresciuta, il prezzo dei loro servizi diminuirà. Ciò potrà determinare la scomparsa dei professionisti marginali, quelli i cui costi di produzione finiscono per diventare superiori ai ricavi. Ma il mercato funziona così da almeno due secoli e mezzo.

Quando si parla di ordini professionali, molti non pensano che sono assai pochi rispetto alle professioni che il moderno capitalismo ha creato e continua a creare. Questo accade perché quelle protette da un albo istituito per legge sono soltanto le professioni cosiddette “liberali”, secondo una concezione del lavoro ottocentesca. Ma alcune di queste sono rimaste uguali da secoli, come il notaio e le norme che le regolano sono residuati arcaici che oramai cozzano violentemente con i postulati dell’economia di mercato, per quanto regolamentata. Ci si può chiedere: ma perché gli ordini professionali sono così pochi? La risposta è semplice ed ovvia allo stesso tempo: perché se tutti i produttori di servizi avessero un ordine professionale l’economia di mercato non esisterebbe, con il che si dimostra in modo velocissimo che tutti gli ordini professionali non possono conciliarsi con un’economia fondata sull’esistenza di un mercato.

Non solo sono pochi ma hanno il privilegio di determinare il numero di associati che ogni anno ne entreranno a far parte. La maggior parte degli Ordini esistenti (notai, avvocati, ingegneri, architetti, geometri, geologi, farmacisti, medici, commercialisti) regolano gli accessi con “esami di Stato”, avente valore legale, più o meno duri. E questa è già una contraddizione in termini, perché per esercitare la professione dovrebbe essere sufficiente una laurea specialistica, magari supportata da stage e apprendistato. Nel caso dei dottori commercialisti, ad esempio, non solo ci vogliono tre anni di praticantato in uno studio, certificato da un controllo dell’attività svolta ogni sei mesi, ma l’aspirante deve anche superare una prova che equivale, per difficoltà, a circa otto esami universitari (naturalmente lasciamo perdere la qualità dei tirocini che si svolgono attualmente negli studi professionali, sui quali è meglio stendere un velo pietoso). L’esame per diventare avvocato è così difficile, o i candidati sono così poco preparati, che per moltissimi anni frotte di aspiranti legali si sono trasferiti a Reggio Calabria o a Catanzaro dove si sapeva che le Commissioni chiudevano più di un occhio. Ugualmente duri sono le prove d’esame per gli architetti e gli ingegneri,  per non parlare nemmeno di quelli per il notariato, forse i più difficili in assoluto.

Ma, pensiamoci un attimo: a cosa servono questi esami se non a limitare gli accessi alla professione? Un architetto è costretto a disegnare e illustrare un progetto, cosa che ha fatto già innumerevoli volte, un avvocato deve stilare un saggio di diritto civile, o penale o amministrativo, un notaio un atto negoziale. Ma l’Università a cosa serve se poi per fare la professione i laureati devono fare altri esami, ben poco specifici rispetto a quelli universitari? La risposta è univoca: servono per limitare gli accessi e per non creare un mercato delle professioni.

Infatti, se fosse il mercato a decidere chi deve fare il notaio e chi non deve farlo, ogni laureato in legge potrebbe aprire il suo studio a sue spese (e non con la dotazione di capitale a fondo perduto che fornisce ai vincitori l’Ordine dei notai), scegliendo una zona promettente e sopportando un rischio che può essere ampiamente ripagato. Se la legge fosse diversa da quella attuale, potrebbe costituire una società con altri notai, diventare una impresa di servizi legali, associando magari anche avvocati, consulenti del lavoro, contabili. Sarebbe sempre il mercato a decidere se ha fatto i passi giusti o no, espellendo gli incapaci e coloro che non riescono a mantenere i costi aziendali in linea con i ricavi. Un’organizzazione di questo genere avvantaggerebbe non soltanto le imprese professionali efficienti e dunque le capacità di coloro che le gestiscono, applicando finalmente la meritocrazia grandemente invocata ma scarsamente praticata in Italia, ma anche i consumatori, che pagherebbero prezzi (e non tariffe) più basse.

Conosciamo le obiezioni che oppongono gli ordini professionali. In un prossimo articolo ne discuteremo doviziosamente e senza riserve mentali (I-continua).

 

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