Paul Krugman, sul “New York Times”, denuncia le politiche economiche restrittive che rischiano di curare la malattia con la morte del paziente
Un luminoso articolo del Premio Nobel Paul Krugman, pubblicato sul “New York Times” del 29 dicembre ha gettato finalmente una luce diversa sui dibattiti di politica economica ma soprattutto sulle decisioni che i governi europei – compreso il nostro – hanno preso e sfortunatamente prenderanno nell’immediato futuro per superare la più grave crisi economica del secondo dopoguerra. Nel 1937, esordisce Krugman, John Maynard Keynes, il grande economista di Cambridge, disse: “È l’espansione non la recessione il momento giusto per l’austerità fiscale”. Quello che noi docenti di economia insegniamo in tutte le scuole e Università del mondo, cercando di far apprendere ai nostri alunni i principi fondamentali del pensiero keynesiano.
Per Keynes, nella fase positiva del ciclo è necessario tenere d’occhio la massa monetaria e restringere le possibilità di spesa dei cittadini, perché è inevitabile un aumento dell’inflazione che può, fra le altre cose, innescare la famosa spirale prezzi-salari. Nelle fasi depressive del ciclo, occorre fare tutto il contrario: espandere la spesa pubblica e sostenere la domanda, magari ricorrendo al debito (cosiddette politiche di “deficit spending”), altrimenti i pericoli sono seri e la depressione può portare l’economia ad uno stadio terminale, che è la deflazione (come successe dopo il
Circa trent’anni di attacchi forsennati al keynesismo da parte della scuola di Chicago (quella che, con a capo Milton Friedman, collaborava con i peggiori regimi fascisti latino-americani) e dei vari opinion-leader iperliberisti hanno finito per scardinare dall’interno queste verità economiche, inducendo banche centrali e operatori dei mercati finanziari a puntare su programmi di privatizzazioni e di non intervento dello Stato, poggiandosi sulla convinzione che a ristabilire gli equilibri possano essere gli operatori finanziari e la leva del debito (quindi, le banche). I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Secondo Paul Krugman, che da almeno tre anni si batte contro le politiche economiche restrittive dei governi europei, gli esempi di Paesi come Grecia e Irlanda, che “hanno dovuto imporre una selvaggia austerità fiscale come condizione per ricevere prestiti d’emergenza e hanno sofferto del crollo economico con il prodotto interno lordo di entrambi i paesi giù di due cifre” sono illuminanti.
Ma noi aggiungiamo anche altro. Proprio esempi come quello dell’Irlanda, che fino a cinque anni fa tutti lodavano perché manteneva una bassissima pressione fiscale (la più bassa in Europa), soprattutto sui capitali esteri in cerca di investimento e scaricando gli aggiustamenti sui salari operai e sugli stipendi, quindi sui lavoratori e la sua caduta repentina dimostrano come il modello economico anti-keynesiano e iperliberista, fondato su detassazione e salari flessibili, è la via diretta verso la catastrofe.
Tutto ciò porta a ritenere che le attuali politiche economiche, fondate su quelli che possiamo denominare “gli assiomi di Draghi”, sono destinate a curare la malattia recessiva con la morte del paziente e, forse, con la fine del sistema economico europeo. L’ipotesi che sia soltanto necessario immettere liquidità nel sistema, come sta facendo attualmente
Come ribadisce Krugman la “austerità espansiva”, fino ad ora, non ha dato alcun risultato positivo; al contrario, ha rafforzato la disoccupazione, stabilizzandola, riflettendosi perfino sui valori di Borsa delle aziende, cioè su quello che hanno di più caro proprio gli iperliberisti. Perché il vero problema dell’economia mondiale sono loro, i nipotini di Milton Friedman.
“Keynes aveva ragione” di Paul Krugman – New York Times