Articolo 18. Quanti errori sui quotidiani e quante mistificazioni fra i giuristi

 

L’Ocse ci giudica fra i Paesi più flessibili in Europa, eppure la disinformazione imperante della destra e di molti giuslavoristi afferma il contrario. Facciamo il punto su cosa dice la legge e cosa succede effettivamente nel nostro Paese

In un’analisi comparativa di “Repubblica”, nella quale si descrivono le leggi sui licenziamenti di altri Paesi industrializzati, Paolo Griseri parla dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori asserendo che esso prevede il reintegro in azienda per i licenziamenti senza giusta causa e specificando: “i motivi economici non sono ancora considerati tali”. Da ciò il lettore medio, giustamente poco informato di norme e regolamenti, trae la convinzione che se un’impresa ha dei problemi economici e non può più permettersi di pagare tutti i suoi dipendenti, non può licenziarli perché non c’è una giusta causa.

Non è la prima volta che editorialisti e perfino preclari studiosi della materia diffondono questo genere di disinformazione. Ora, sicuramente nel caso del giornalista di “Repubblica” si tratta di una svista in buona fede ma, in altri casi, non crediamo che ricorra solamente la non conoscenza dei fatti. È da almeno dieci anni che dobbiamo sopportare un’informazione – proveniente soprattutto dalla destra e da giornalisti quali Belpietro e Sallusti – che insiste sul fatto che in Italia è impossibile licenziare un qualsiasi lavoratore, per colpa del famigerato articolo 18. Non solo: ma tutti, proprio tutti (anche le persone in buona fede come Griseri) parlano solo e soltanto della “giusta causa”, addebitandole ogni orrore economico e disegnandola come una catena per il sistema produttivo.

La dimenticanza è grave e in molti casi anche sospetta. Già, perché non è affatto vero che in Italia si può licenziare soltanto quando ricorre la “giusta causa” ma anche (e i dati mostrano che è l’ipotesi più frequente) quando c’è il “giustificato motivo”, che a sua volta si divide in “oggettivo” e “soggettivo”.

Visto che la maggior parte di coloro che scrive di questi argomenti si dimentica regolarmente di specificare la differenza fra “giusta causa” e “giustificato motivo”, lo faremo noi per loro e chiediamo scusa se ci impanchiamo a cattedratici ma è la situazione che lo richiede. Allora, iniziamo a dire che il licenziamento per giustificato motivo fu introdotto da una legge del 1966 (legge 15 luglio 1966, n. 604) e fu la prima volta in Italia che il Parlamento approvò norme che limitavano il potere di licenziamento del datore di lavoro. Cosa stabiliva quella legge? Stabiliva che un lavoratore potesse essere licenziato per due motivi: a) quando non rendeva come doveva, la sua produttività era scarsa o il suo stato di salute non gli consentiva di svolgere le proprie mansioni (“licenziamento per giustificato motivo soggettivo”); b) quando l’impresa è in crisi e non è più in grado di mantenere i precedenti livelli occupazionali (“licenziamento per giustificato motivo oggettivo”). La soluzione ai licenziamenti ingiustificati, però, non era quella che sarà prevista dallo Statuto dei lavoratori, perché la legge del 1966 stabiliva che il datore di lavoro che licenziasse il dipendente senza motivo avesse soltanto l’obbligo di risarcirlo (per un massimo di quindici mensilità, cosiddetta “stabilità obbligatoria” del posto di lavoro).

Il licenziamento per giusta causa, altra cosa sottaciuta dalla disinformazione corrente, è stato addirittura previsto da una legge emanata in epoca fascista, il codice civile: in esso gli articoli 2118 e 2119 prevedono, il primo, la libertà di recedere dal contratto di lavoro per entrambi i soggetti (lavoratore e datore di lavoro), ponendo solo un obbligo di preavviso, il secondo la giusta causa che evita perfino il preavviso. La giusta causa ricorre ogni qualvolta risulta impossibile proseguire anche temporaneamente il rapporto di lavoro, il che succede quando, ad esempio, non c’è più la fiducia fra le parti (ad esempio, classico motivo di giusta causa, il dipendente che ruba i soldi all’azienda o danneggia i macchinari). Come appare evidente, la “giusta causa” è un motivo molto più generico ed è soltanto “uno” dei motivi per cui si licenzia in Italia.

Fino al 1966, dunque, in Italia c’è stata una totale libertà di licenziamento. In quell’anno entrò in vigore una norma che cominciava a limitarne l’uso (e l’abuso). Nel 1970, poi, lo Statuto dei lavoratori, facendo riferimento alle due “cause” tecniche di licenziamento, pose una tutela “forte”, per le aziende con più di 15 dipendenti: se il datore di lavoro licenzia in modo ingiustificato (cioè senza giusta causa o giustificato motivo) è costretto a riassumere il lavoratore (cosiddetta “stabilità reale” del posto di lavoro) o, se il dipendente è d’accordo, pagargli un’indennità. La logica dello Statuto è ferrea e ripone nella soffitta delle cose inutili tutto il fiume di parole senza senso che in questi anni si sono dette sulla presunta “discriminazione” fra lavoratori iperprotetti dallo Statuto e lavoratori senza tutele. Il limite dei 15 dipendenti fu pensato perché nelle fabbriche più grandi si presume che ci sia un regime di “spersonalizzazione” del rapporto di lavoro; quindi la persona del lavoratore è indifferente al datore, che forse nemmeno lo identifica fisicamente e dunque può riassumerlo quando ha sbagliato a licenziarlo. Cosa diversa, nelle piccole realtà industriali, dove il rapporto personale è molto più stringente. Ai piccoli imprenditori si diede dunque la possibilità di togliersi di torno il dipendente quando il conflitto avesse irrimediabilmente corrotto il rapporto personale.

Ora, la notizia del giorno è che l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione economica) giudica il sistema italiano del mercato del lavoro fra i più flessibili in Europa, con un indice pari a 1,77, mentre la media mondiale è 2,11. Quindi, non è vero che in Italia i lavoratori non si possono licenziare. Si licenziano, eccome se si licenziano. Con il che si dimostra che l’attacco all’articolo 18 serve solamente a ridimensionare il potere dei sindacati, e quindi dei lavoratori, ma, per farlo, c’è stato bisogno di una colpevole e criminale disinformazione dell’opinione pubblica, alla quale non sono stati estranei anche molti “autorevoli” cattedratici del diritto del lavoro.

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