La guerra di Sergio Marchionne

L’Italia non consente i margini di profitto che l’amministratore delegato del Lingotto desidera. Così, alla trasmissione di Fabio Fazio, confessa quello che è soltanto il suo personale fallimento

ROMA – Alla fine ce l’ha fatta. Ha sputato il rospo. È andato nella trasmissione più “cool” del digitale terrestre, con l’ecumenico Fabio Fazio, e gli è uscito dalla bocca quello che aveva nelle viscere da qualche anno. “Di cinque miliardi di utili macinati dalla Fiat, nemmeno un euro viene dall’Italia. Se non avessimo stabilimenti italiani guadagneremmo molto di più”. La guerra di Sergio ha dunque segnato un avanzamento strategico, prima di trasferirsi definitivamente sui mercati globali che lui oramai sogna come incubi tutte le notti, pronto a lanciare l’attacco dalla ridotta serba o brasiliana, con sturmtruppen operaie tutte sporche che mangiano, con i loro salari da fame, a giorni alterni.

In questo modo curioso e deprecabile, l’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, famoso soprattutto per i suoi cashemerini scuri, che hanno superato nell’immaginario collettivo il vezzo di Gianni Agnelli dell’orologio stretto sulla manica della camicia griffata, ha annunciato urbis et orbi la sua definitiva uscita dal mondo italiano e la consacrazione della Fiat come azienda americana. E non è certo una novità, perché, oramai, l’acquisto della Chrysler (focheggiata nel periodo acuto della crisi con entrambi gli occhi puntati sugli aiuti di Stato concessi da Barack Obama) si è capito come fosse qualcosa di più di una semplice strategia aziendale. In realtà, quell’acquisizione aveva il significato di una colorazione a stelle e strisce, la conclusiva scelta di campo a favore del modello capitalistico competitivo e il parallelo abbandono del modello renano di economia “partecipata”.

Al di là dei convenevoli che pure in Italia non vengono mai negati alla Fiat e, in particolar modo a Sergio Marchionne (indicato fino a soli due anni fa dall’ex segretario Pd Walter Veltroni come una sorta di icona dell’industrialismo progressista), è quanto meno necessario riportare la barra su un indice di verità, per quanto oramai sia possibile in questo disastrato Paese divorato dalla cultura di destra. E denunciare, dunque, con il responsabile economico del Pd Stefano Fassina che “il dottor Marchionne nella sua analisi della situazione italiana e dei comportamenti sindacali omette un dato di fondo: le carenze della Fiat nelle politiche per gli investimenti, nella progettazione e produzione di modelli, nell’organizzazione produttiva”. Perché la “guerra di Sergio” è combattuta con armi vietate da numerose Convenzioni di Ginevra, come quella propagandistica finalizzata ad addossare tutti i guai del Lingotto agli operai di Pomigliano d’Arco “che si assentano in massa quando gioca la nazionale italiana”, o il livello insostenibile del costo del lavoro, teso a fornire quelle garanzie del Welfare che, per il suo omologo al Governo, Giulio Tremonti, sono oramai un inutile e dannoso orpello, che fa fuggire dal nostro Paese la maggior parte delle aziende.

Proprio la Germania ha dimostrato l’infondatezza delle accuse provenienti dal golfino di cashmere: soltanto un mese fa, la Confindustria tedesca ha concluso un accordo collettivo con i sindacati in base al quale sarà vietato licenziare qualsiasi operaio senza l’esplicito assenso delle loro organizzazioni rappresentative. Nello stesso tempo, Mercedes, Audi, Volkswagen continuano a macinare vendite e profitti in tutto il mondo, con i loro modelli aggiornati, precisi, di tendenza; prodotti che il top management del Lingotto non ha mai saputo nemmeno immaginare e, certo, non per colpa dei Campionati mondiali di calcio.

Allora, tanto valeva essere più sinceri e, mentre si attribuivano tutte le colpe dei mancati profitti agli operai e alla Fiom, confessare anche la propria incapacità di avvicinarsi di qualche chilometro alle aziende tedesche e al loro alto e raffinato profilo industriale, sottolineando l’ineluttabilità di salari da 400 euro al mese per produrre automobili che valgono poco di più.

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