Nel cuore della Venezia post-industriale, al Museo M9 di Mestre, si è svolto l’8 e 9 ottobre 2024 il convegno “Identità e algoritmi. Patologie e cura della psiche nel capitalismo digitale”. Diciotto relatori tra matematici, filosofi, psicologi e sociologi si sono confrontati per due giorni sull’impatto delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale (IA) sulla psiche, sull’identità e sul desiderio umano. Il convegno, attraversato da una forte tensione critica e da una consapevolezza interdisciplinare, ha mostrato come il digitale non sia solo uno strumento, ma una vera e propria “forma di vita” che ridefinisce il senso dell’essere umano.
Dalla macchina di Turing all’algoritmo del desiderio
La riflessione si è aperta con una critica strutturale alla logica computazionale: l’intelligenza artificiale, pur efficiente e rapidissima, si fonda su comandi e correlazioni, ignorando la causalità e l’esperienza incarnata dell’umano. L’IA, sostituendo qualità con quantità e desideri con profili, produce una realtà parallela in cui l’identità è tradotta in dati, con il rischio di una “dis-individuazione algoritmica” dove il soggetto non è più singolare ma calcolabile.
La psiche scomposta e l’identità digitale
Le nuove tecnologie non si limitano a rappresentare la realtà, ma la trasformano. L’interazione tra mente umana e dispositivi digitali genera dipendenze, automatismi mentali e alienazione affettiva. Si afferma un nuovo paradigma psichico: dall’individuo al “gemello digitale”, una simulazione predittiva che pretende di sapere chi siamo prima ancora che ce ne rendiamo conto. La cura della psiche, in questo scenario, deve fare i conti con nuove patologie – dall’iperconnessione alla crisi del desiderio – in una società che fonde online e offline in un’unica condizione “onlife”.
Desiderio e prestazione nell’epoca della standardizzazione
Nel capitalismo digitale il desiderio, forza creativa per eccellenza, viene normalizzato, anticipato e sfruttato. L’economia algoritmica trasforma ogni spinta vitale in consumo prevedibile, alimentando una “fatica di essere se stessi”. Il desiderio non è più tensione verso l’altro o verso l’ignoto, ma rincorsa infinita di stimoli e gratificazioni virtuali, sempre uguali e sempre insoddisfacenti. Il risultato è una depressione diffusa, una solitudine in rete, un corpo desiderante anestetizzato.
La spettacolarizzazione dell’identità
Oggi il sé è costantemente performato: selfie, storie, post trasformano ogni momento in rappresentazione, ogni relazione in visibilità. L’“io” diventa spettatore e attore di sé stesso, in uno spettacolo globale dove l’individualità è inghiottita dal codice e dalla connessione permanente. Non c’è più un “io penso”, ma un “io sono visto”. Un incantesimo digitale che trasforma la partecipazione in complicità e la libertà in tracciabilità.
Dalla diagnosi alla cura: riscoprire la presenza e il riconoscimento
Ma non tutto è distopia. I relatori hanno tracciato vie di resistenza: dalla riscoperta del desiderio autentico alla riforma educativa centrata sul riconoscimento reciproco; dalla costruzione di un nuovo umanesimo digitale alla consapevolezza ecologica della mente. In questo scenario, il bisogno di “presenza” – intesa come attenzione, relazione, corporeità – emerge come antidoto all’automatismo e all’alienazione.
Il convegno ha svelato un paradosso centrale della nostra epoca: mentre siamo tecnologicamente interconnessi come mai prima, siamo psicologicamente più soli e frammentati.
L’identità, oggi, è un campo di battaglia tra umanità e algoritmo, tra profondità e superficie. Ripartire dal desiderio, non come consumo ma come apertura all’altro, e dal riconoscimento reciproco, non come like ma come relazione reale, potrebbe essere la via per una psiche non più catturata dal capitale ma restituita alla sua vocazione umana.