Intelligenza artificale e arte contemporanea s’incontrano al Maxxi

Intervista alla curatrice Daniela Cotimbo. Dal 5 al 30 maggio 2021, una rassegna collettiva che offre una nuova prospettiva di indagine sulle potenzialità espressive delle tecnologie, evidenziando anche un differente approccio alla pratica artistica e curatoriale 

ROMA – Il rapporto traarte contemporanea e Intelligenza Artificiale è il focus della grande mostra Re:Humanism – Re:define the Boundaries, ospitata dal 5 al 30 maggio 2021 al  MAXXI – Museo nazionale delle Arti del XXI secolo di Roma. 

La rassegna, a cura di Daniela Cotimbo, presidente dell’associazione Re:Humanism, riunisce i progetti (10 finalisti, tre vincitori e un premio speciale) della seconda edizione del Re:Humanism Art Prize, che attraverso una call for artists internazionale ha raccolto oltre duecento candidature da tutto il mondo.  Si tratta di una mostra sicuramente insolita, che offre una nuova prospettiva di indagine sulle potenzialità espressive delle tecnologie, evidenziando anche un differente approccio alla pratica artistica e curatoriale. 

In una situazione di limitazione e “confinamento” dovuto al dilagare della pandemia, Re:define the Boundaries (Ri-definire i confini) apre invece a una nuova narrazione, alla necessità di sperimentare diverse forme relazionali, proponendo uno sgretolamento e assottigliamento dei confini specifici e una rinuncia alla classificazione in generi. 

A differenza della moltitudine di mostre interattive e multimediali, Re:define the Boundaries non prospetta un’immersione in un mondo virtuale, piuttosto la tecnologia diventa il medium per introdurre e sondare temi centrali per il nostro futuro. 

La biodiversità, la coscienza ecologica, l’identità di genere, sono alcuni dei concetti cardine che emergono dai progetti finalisti e che aprono un varco verso una nuova lettura del mondo futuro. 

Ne abbiamo parlato con la curatrice Daniela Cotimbo.

Qual è stato il percorso che dall’arte contemporanea ha portato a interessarti di Intelligenza Artificiale e come è nato l’art prize Re:Humanism?

Di arte contemporanea mi occupo da circa una decina di anni, durante i quali ho curato numerosi progetti indipendenti. L’incontro con la tecnologia e l’intelligenza artificiale è avvenuto due anni fa, quando mi è stata chiesta una collaborazione da Alan Advantage, azienda specializzata in questo campo, in relazione ad alcune criticità sviluppate dagli algoritmi e inerenti in particolare a problemi di discriminazione di genere, di razza, per cui era necessaria una riflessione più umanistica, filosofica e non solo tecnologica. L’dea è stata quella di lanciare un format di arte contemporanea che potesse anche mappare le varie esperienze in questi ambiti.  Da lì è nata la prima edizione di Re:Humanism e quindi l’approfondimento e il focus sull’intelligenza artificiale. 

“Re:define the Boundaries” è il titolo di questa seconda edizione. Cosa si intende per ri-definire i confini?

L’intelligenza artificiale, proprio per il suo potenziale tecnologico molto avanzato, si presta ad aiutarci a ri-definire dei concetti base, fondamentali per noi esseri umani, spingendoci a rimettere in discussione alcuni confini e limiti, concependo un nuovo modo di esistere, che sia innanzitutto non gerarchico, con nuove forme relazionali, anche con altre specie. D’altra parte la pandemia stessa ci ha già spinti a ripensare e ri-definire molte delle nostre esperienze quotidiane.  Il messaggio principale della mostra è dato quindi proprio dal titolo, ovvero andare oltre le categorie determinate in termini di sessualità, di relazioni, di rapporti, anche attraverso ciò che non è ufficialmente “vitale”.

L’approccio antropologico all’Intelligenza artificiale può apparire come una sorta di controsenso, quasi difficile da comprendere…

Approccio antropologico si intende non nel senso che le macchine debbano somigliare all’essere umano, ma esattamente il contrario. Siamo noi esseri umani che dobbiamo imparare a relazionarci con delle entità non umane, che saranno sempre più presenti nelle nostre vite. Pensiamo, ad esempio, alle nanotecnologie che “abiteranno” i nostri corpi, aiutandoci a risolvere malattie molto gravi. Il confine tra essere umano e oggetto tecnologico artificiale si perderà. Dobbiamo essere sicuramente bravi a comprendere la modalità giusta per relazionarci con le macchine. Ciò implica uno sforzo ad immaginare un futuro differente, che stiamo scoprendo essere sempre più possibile e vicino. 

La mostra indaga diversi aspetti e temi. Come sono stati scelti e declinati dagli artisti?

Il tema che ha sicuramente avuto più riscontro nei progetti vincitori è quello relativo al futuro del pianeta, inteso proprio come relazione ecologica. I primi classificati, gli Entangled Others, hanno sviluppato un ecosistema acquatico in digitale in grado di esplorare i concetti di biodiversità e relazione tra specie.  Un progetto che nasce dall’analisi dell’ecosistema delle barriere coralline, elaborato e processato attraverso algoritmi, che diventa emblema di una convivenza funzionale all’interno del pianeta.

Il progetto della seconda classificata, Irene Fenara,  rilegge in chiave metaforica il fenomeno dell’estinzione delle tigri, mettendo in parallelo tale fenomeno con la necessità di preservare una memoria digitale.

Il terzo classificato, Yuguang Zhang, si muove più nell’ambito dell’antropologia dell’intelligenza artificiale. L’artista, presentando  un’installazione di un letto che ha “memorizzato” i movimenti dell’essere umano, si interroga, sempre tramite l’elaborazione di un algoritmo, sulla natura non neutra degli oggetti e sulla relazione che ci lega ad essi.

Ci sono poi altri lavori che invece riguardano riflessioni sul linguaggio. In particolare quello di Mariagrazia Pontormo, con il suo tentativo di traduzione del manoscritto di Voynich, un misterioso codice risalente al XV secolo, scritto in una lingua sconosciuta. Oppure il lavoro di Egor Kraft che reinterpreta, sempre attraverso degli algoritmi, alcune tradizioni dell’antica pittura cinese. E ancora il lavoro di Carola Bonfili, una narrazione basata sulla sceneggiatura di un’intelligenza artificiale. Sono tutte modalità di approccio al linguaggio filtrato però dallo sguardo dell’algortimo. 

In questo scenario, quella del curatore sembra divenire una figura sempre più multidisciplinare e in grado di costruire ponti di dialogo tra gli ambiti più disparati. Lo stesso vale anche per l’artista. Come cambia il suo lavoro? 

Dal punto di vista curatoriale sono sicuramente importanti nuove competenze per l’approccio a questa complessità. D’altra parte penso che sia impossibile non farlo. Gli artisti, come i curatori e tutti coloro che ruotano intorno al mondo dell’arte sentono il bisogno di confrontarsi con temi più complessi, in questo senso stanno cambiando i ruoli. Gli artisti diventano ricercatori, spesso fanno residenze nelle grandi aziende come Google o nei centri di ricerca come il Cern. Hanno competenze  molto scientifiche, lavorano anche in collettivi, confrontandosi con altre figure professionali. Ci sono quindi, sicuramente, dei cambiamenti radicali in atto. 

Non c’è pericolo che la tecnologia possa indebolire l’impulso creativo dell’artista?

Al contrario, io credo che lo potenzi. Vedo la tecnologia come una naturale evoluzione. La stessa fotografia in passato ha cambiato radicalmente il modo di fare arte.  Quello che sta avvenendo adesso ha una sola differenza:  la velocità. Siamo quindi costretti ad adeguarci molto più rapidamente a queste evoluzioni. 

Dal punto di vista del visitatore, una mostra del genere richiede un differente approccio culturale? E’ più difficile raggiungere livelli di empatia e coinvolgimento? In virtù anche della precedente esperienza, come reagisce il pubblico? 

Sicuramente RE:Humanism è una mostra un po’ particolare rispetto a quelle che di solito si occupano di arte e tecnologia. Non è una mostra piena di computer,  ma ci sono diversi video. La tecnologia c’è,  ma non è sempre esplicita e manifesta, per cui l’opera mantiene quel suo linguaggio autonomo. Questa è anche una caratteristica che ha contraddistinto la prima edizione, nella quale la prima opera classificata era una performance, per cui la tecnologia non era esplicitamente visibile. RE:Humanism  è quindi differente dalle mostre in cui la complessità tecnologica è maggiormente esibita.  Per poterla apprezzare pienamente è necessario avere un minimo di conoscenza, ma c’è anche da dire che l’intelligenza artificiale oggi non è più uno scenario futuristico. Il pubblico è ormai più preparato, l’utilizzo di piattaforme come Netflix o dei social sicuramente facilita l’approccio.

La cosa a cui tengo molto è che RE: Humanism si muove in un terreno neutro tra arte contemporanea e tecnologia. Io spero che un domani non sia neppure necessario mettere l’etichetta distintiva “arte” e “tecnologia”, perché verrà spontaneo utilizzare i mezzi tecnologici. 

C’è anche un’opera che verrà presentata in seguito, puoi anticipare qualcosa?

L’opera è quella di Francesco Luzzana, che verrà presentata all’interno del RomaEuropa festival. Dopo due anni di collaborazione spontanea con RomaEuropa e con Federica Patti, curatrice di Digitalive, abbiamo deciso quest’anno di metterla a sistema dedicando un premio alla performance. Il progetto performativo di Francesco Luzzana  indaga le relazioni tra corpo e interfacce digitali.  Una danzatrice si muoverà in uno spazio digitale, ma il pubblico che parteciperà allo spettacolo avrà la possibilità di interagire. 

Ci sono aree geografiche che stanno sviluppando più rapidamente questo dialogo arte/intelligenza artificiale?

Ovviamente la tecnologia va di pari passo con paesi che possono permettersi di fare maggiori ricerche in questo senso. Tuttavia devo dire che in questa edizione abbiamo ricevuto proposte da tutto il mondo, anche dal Sud Africa, che purtroppo non hanno vinto.  Questo evidenzia che si tratta di temi che cominciano ad essere sempre più diffusi. Sicuramente gli Stati Uniti e la Cina sono i paesi che detengono il monopolio delle tecnologie. Ma, già nella prima edizione del premio, ci siamo resi conto che in Italia ci sono molte ricerche in tal senso, non siamo poi così indietro. 

Quanto ha impattato il Covid sull’organizzazione del premio e della mostra?

Ci sono state e ci sono molte incertezze, l’organizzazione non è stata affatto facile. A dispetto delle difficoltà, devo dire di essere  fortunata avendo avuto il supporto di un’azienda come Alan Advantage, che ha avuto un ruolo molto attivo e attento, non solo come sponsor.

Altri progetti?

Posso accennare a un progetto che sto realizzando con Arianna Forte e che riguarda il connubio tra arte contemporanea, tecnologia e femminismo. Ci interessa molto l’approccio femminile alle tecnologie. 

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe